Intervista Impossibile – Conversazione con il Progettista dei Giardini Pensili di Babilonia – di Gian Marco De Vitis
Intervista Impossibile – Conversazione con il Progettista dei Giardini Pensili di Babilonia – di Gian Marco De Vitis
Autore: redazione
pubblicato il 15/02/2023
nella categoria Parole
Mi trovo nel Pergamon Museum di Berlino, è tarda sera, siedo su una poltroncina ai piedi della Porta di Ishtar, davanti a me una poltroncina vuota mi ricorda che sono qui con un compito ben preciso, per il quale si è resa necessaria tanta burocrazia ed è stata richiesta la collaborazione di numerose autorità politiche, amministrative, religiose e probabilmente temporali; ma ne so ben poco, io giungo solo al termine di questa monumentale catena organizzativa, col mio compito decisamente più semplice: un’intervista.
Il museo è chiuso. L’impianto di illuminazione non è quello delle ore d’apertura. Le luci di un’intervista non sono le stesse necessarie per la museografia. Un proiettore illumina molto me e troppo la Porta di Ishtar che da questo scontro con una luce così fortemente orizzontale e bianca, ne esce fortemente sgraziata, finanche nel colore. Tra la mia poltrona e quella vuota sta un tavolino, con una lampada dalla luce gialla, più domestica, e una caraffa con due bicchieri.
Attendo ormai da una decina di minuti: si spengono le luci e sento voci in una lingua che non conosco venire dall’altro lato dell’immensa porta blu. Dal fornice passano quattro uomini, vestiti di una tunica, ciascuno porta nelle mani un treppiedi metallico con un braciere fiammeggiante. I visi seri e dagli occhi chiari, la spalla e il pettorale scoperti dalla tunica lucidi di sudore. Lo sguardo perso davanti a sé, posano i bracieri ai lati delle due poltroncine e ristanno, immobili, fronteggiandosi. Giovani uomini e donne, una decina, tutti bruni ed olivastri, compaiono al suono di strumenti che ho visto nelle teche dei musei, ma mai sentito suonare. Danzano sulle note dei sistri, scoprendosi i bei corpi dai tanti scialli di lino che indossano, alcuni imbracciano gli strumenti, altri fiaccole, e ruotando attorno alle poltroncine proiettano le loro ombre sulla Porta, ora magnifica nell’illuminazione delle vampe del corteo. Uno dei giovani sostituisce l’abat-jour che stava sul tavolino con un candelabro dai molti bracci, tutti recanti una candela accesa. La poltroncina davanti a me viene portata lontano dai bracieri. Sei suonatori di tamburo interrompono la musica dei sistri con un ritmo perentorio, i danzatori si fermano, il profumo dei loro balsami impregna l’aria; i percussionisti mi vengono incontro, e dietro loro altrettante persone, più nude che vestite, trasportano a spalla qualcosa di molto pesante. Così fa ingresso dall’enorme Porta blu un uomo regalmente vestito, seduto in trono, portato da quelli che devono essere suoi servitori, che me lo posano davanti, dove prima stava la poltroncina, in uno scintillio di sete e gemme: la tunica, lunga a coprirgli i piedi, è celeste, e ogni sua piega sembra puntellata di stelle sotto la luce dei bracieri, e quelle stelle sono pietre preziose; una collana di lapislazzuli e zaffiri gli tempesta il petto di luce; le mani, sui braccioli del trono d’oro e legno, portano più anelli che falangi: chi ho davanti usa le mani solo per gesticolare, è chiaro, nessuno con tutti quegli anelli potrebbe mai compiere qualsiasi azione; ma che strano, penso, non dovevo incontrare un architetto? Un architetto di tanto tempo fa, certamente, ma pur sempre un uomo pratico, che avrà dovuto disegnare, modellare, far di conto.
Mentre m’interrogo si è fatto silenzio. Nel crepitio delle braci gli occhi verdi pesantemente truccati dell’uomo regale mi fissano con attenzione e una certa superiorità. Il volto dell’uomo è elegante, la fronte è alta, i capelli lunghi sono raccolti in treccine legate assieme dietro la nuca, gli zigomi prominenti, le guance scavate, la barba nera è anch’essa ripetutamente intrecciata, qua e là vi si scorge una gemma tra i peli, alle orecchie porta pesanti orecchini d’oro.
Il silenzio è imbarazzante. Ad un cenno della mano dell’uomo sul trono, tutto il corteo che lo aveva accompagnato si ritira, tornando oltre la Porta. Rimasti soli, noto un nuovo scintillio nella sua barba: non sono pietre preziose. Sono denti, mi ha sorriso. Colgo l’occasione per togliermi di dosso il silenzio, la curiosità e, ammetto, la paura.
- Chi è lei?
- Nabû-kudurri-uṣur. Ma, a quanto ne so, lei mi conosce come Nabucodonosor, il secondo.
- Nabucodonosor?
- Secondo.
- Maestà, è davvero lei?
- In carne ed ossa.
- Ma deve esserci un errore. Vede? Io sono qui per conto di una nota rivista italiana d’architettura, con il compito di fare un’intervista all’architetto che progettò i Giardini Pensili di Babilonia, per un approfondimento sulla progettazione degli spazi verdi e il rapporto archetipico tra i noti Giardini della sua città e la pratica attuale di progettazione del verde urbano. Non avrei mai scomodato Sua Maestà per una simile sciocch…
- Lei parla molto, ma usa termini che non comprendo. Rivista? Italiana? Sia più chiaro, signor…?
- De Vitis, Maestà. Mi scuso. Lavoro per una rivista, vale a dire una raccolta di testi su argomenti specifici, prodotta in plurima copia e distribuita ai cittadini del mio paese, l’Italia, o di altri paesi, come la Germania, che ci ospita al momento.
- Italia e Germania? Mai sentite. Nei pressi della Giudea?
- Nient’affatto Maestà, ben oltre il mare che la bagna, oltre la Grecia.
- Terre di scarso interesse dunque.
- Senza alcun dubbio, Maestà.
- E dunque, mi diceva, una rivista. E cosa mai si ritiene così utile da dover essere redatto in plurima copia perché lo leggano, come li ha chiamati? I cittadini!
- Più che in copia plurima, si tratta di un testo che viene pubblicato online, ma non mi chieda di spiegarle cosa significhi, i due millenni e mezzo tra noi renderebbero difficile capirci su questo tema. Vede, Maestà, la società è tanto cambiata da quando lei regnava, e i cittadini sono quelli che lei avrebbe certamente chiamato sudditi.
- E così anche lei ha dei sudditi, è un mio collega? E i suoi sudditi sanno leggere e lei glielo lascia fare?
- No, per carità, mi ha frainteso. I cittadini, nell’accezione che ho dato alla parola poco fa, sono il popolo, di cui faccio modestamente parte. Di sudditi non ne abbiamo, almeno in Italia, poiché non viviamo sotto una monarchia, ma in una democrazia. Quanto al fatto che sappiano leggere sì, non sono certo, però, che tutti sappiano comprendere quanto hanno letto. Ma la prego, Maestà, di non fossilizzarci su questo aspetto della conversazione, le differenze tra il mio e il Suo tempo sono innumerevoli, e forse non così abissali come mi viene da sperare. Quanto all’essere colleghi, io certamente non sono re, ma sono architetto. Lo è anche Lei?
- Tra le altre cose.
- Questo spiega il fraintendimento, ed è anche una notizia storicamente rilevante, sensazionale direi! È dunque stato il re di Babilonia stesso, Nabucodonosor in persona a progettare i celebri Giardini Pensili della sua città?
- Nuovamente, le chiedo di essere più chiaro. Di quali giardini sta parlando? E perché li chiama in quella buffa maniera: pensili? Ma le pare che un giardino possa mai pendere da qualche parte?
- Ma come? I Giardini Pensili di Babilonia, una delle sette meraviglie del mondo antico, lo splendido sistema di terrazzamenti e giardini irrigati da un complesso sistema idraulico che Lei ordinò di costruire in onore di Sua moglie, la regina Amytis.
- La regina la ricordo bene. Donna di vasta cultura e grande bellezza, figlia del re dei Medi. Mantenere un buon rapporto con i popoli ad est fu una preoccupazione costante di mio padre, che aveva dato vita ad un’alleanza militare fondata su una salda suddivisione delle competenze, e in larga misura sullo scambio di conoscenze.
- Vale a dire?
- I Medi, formidabili guerrieri, erano validissimi in battaglia contro gli Assiri. Tuttavia, se la loro forza d’impatto ci veniva comoda nella conquista delle città, era poi raro che lasciassero quelle stesse città in buono stato. Bravi a distruggere e sterminare, pessimi nel costruire e organizzare. Noi Caldei, che pure non eravamo affatto incapaci come soldati, avevamo maggiormente a cuore la governabilità, dunque l’ordine, delle città che assoggettavamo. Dove i Medi distruggevano, con il nostro beneplacito, noi ricostruivamo e restauravamo. Amytis era, tra i Medi, di formidabile cultura, condivideva la mia attenzione al buon ordine delle città.
- Lasci che avanzi un’ipotesi, Maestà: mi pare di intendere che più che un architetto, Lei sia un’urbanista.
- Credo che questa sia una sottigliezza del suo tempo, architetto. Io sono il re dei Caldei, e in quanto tale sono tenuto ad occuparmi di ciascun aspetto della vita del mio popolo: dove vive, come vive, cosa mangia, quanto mangia, con chi commercia, dove va, quali strade usa…
- Dal cucchiaio alla città, come si suol dire.
- Espressione buffa, lei parla in modo strano, ma esatta.
- Dunque, Maestà, mi pare di intendere, date le numerose città che ha conquistato nel Suo lungo regno, che si sia occupato personalmente della progettazione di numerosi impianti urbani, e suppongo di altrettanti edifici. Non comprendo, vorrà scusarmi, come sia possibile che non Le torni alla mente un progetto tanto significativo come i Giardini Pensili.
- Torno a dirle che non ho mai impiegato il mio tempo nella progettazione di una simile sciocchezza.
- Mi scusi se insisto, ma a noi, Suoi posteri, è pervenuta tutt’altra narrazione al riguardo. Già Erodoto, che visse circa cent’anni dopo la Sua morte, scrisse delle sette meraviglie del mondo e tra queste inserì i Giardini Pensili di Babilonia. E ancora altri tre secoli dopo fu Antipatro di Sidone a scriverne nuovamente.
- Da Sidone, come da Tiro, come del resto da tutta quella terra che affaccia sul Mediterraneo, ho sempre e soltanto avuto indicibili rogne.
- Si, questo lo sappiamo anche noi posteri, magari avremo modo di parlarne ma, Maestà: i Giardini?
- Vedo che lei insiste, possibile che non abbia nient’altro da chiedermi? Il mio regno ha avuto tanti meriti in tanti ambiti: militare, astrologico, culturale; e lei continua a tediarmi su questa quisquilia.
- Io Le chiedo umilmente scusa ma sa, la rivista…
- Ancora con questa rivista. Voglio evitare di spazientirmi, mi vanto di essere un re saggio e morigerato. Mi faccia pensare, dunque, i giardini…
- Pensili…
- Taccia, perdio! I giardini… ma vuole vedere che… non può essere…
- Cosa, Maestà?
- Quando con Ḫavachštra, il re dei Medi, ci accordammo per il mio matrimonio con sua figlia, si pattuì che Amytis avrebbe raggiunto Babilonia nel corso dell’anno seguente, forse di lì a due anni, non ricordo di preciso. La mia città era già da tempo, e lungamente lo è rimasta, in un regime di rinnovamento costante. Ben sapendo lo squisito gusto di Amytis, desideroso di impressionarla positivamente, pensai di abbellire ulteriorimente Babilonia in suo onore per mezzo della maggior ricchezza delle mie terre: l’acqua.
- La mezzaluna fertile!
- Non mi interrompa con queste fesserie, la prego. La terra dei Medi, che pure prosperava, non aveva le ricchezze del Tigri e dell’Eufrate, non verdeggiava di campi, di colture e delle innumerevoli varietà d’alberi e frutti che affollavano, invece, i miei domini. Babilonia era già verdeggiante, ma pensai che per dare un’impressione ancor migliore non sarebbe bastata la quantità di piante e alberi e fiori, quanto più loro disposizione. Del resto, noi Caldei abbiamo passato secoli a scrutare il cielo notturno, e nell’arte della comprensione del linguaggio degli astri ci siamo spinti ben oltre i maggiori raggiungimenti degli altri popoli, come gli Egizi, gente superficiale. E dalle stelle, e delle stelle, certo imparammo ad apprezzare la luce e il colore, ma le abbiamo realmente amate solo quando ne abbiamo scovato le geometrie segrete, le forme disegnate nel cielo dagli Dei, l’armonia degli angoli del loro movimento, la loro influenza sulle nostre vite esercitata per mezzo del cerchio, del quadrato, del triangolo. Era quell’ordine, quella stessa gerarchia geometrica che intendevo portare al verde di Babilonia.
- Fu così che progettò i Giardini! Le rovine della città di Babilonia sono poche e malridotte, la Sua terra al giorno d’oggi non vive di pace duratura, la vicina città di Baghdad ha rivestito un ruolo tristemente centrale in alcuni conflitti che hanno significativamente logorato tanto il suolo in sé, quanto, forse, l’interesse per quanto esso nasconde, così a tutt’oggi non sappiamo dove fosse situato questo spettacolare edificio dalle terrazze fiorite. A nord, vicino il Palazzo d’Estate? Lungo il corso dell’Eufrate? A est, a sbalzo sul canale deviato dal gran fiume, nei pressi della porta di Marduk o di Zababa? In prossimità della porta di Ishtar, sotto la quale sediamo oggi? Dove, Maestà, dov’erano i Suoi Giardini?
- Inizio a pensare che lei non mi ascolti, o se mi ascolta non mi vuol capire. Non ci fu mai un edificio che ospitò i giardini. Che sciocchezza è mai questa? Un giardino compresso in un edificio, un bosco in una terrazza, una foresta su un balcone?
- Non capisco…
- Lo vedo bene che non capisce! E sembra non vergognarsi affatto della sua mancanza. Alla corte di Babilonia chi non capiva qualcosa dopo che era stata ripetutamente spiegata aveva il buon gusto di tacere. E gli altri avevano il sacrosanto diritto di non rivolgergli più la parola.
- La prego di scusarmi, ma ecco, vede? Le posso mostrare queste. Si tratta di copie di disegni prodotti nel corso dei secoli, tutti sono il risultato dell’immaginazione di autori, pittori, architetti, disegnatori, che sulla base delle poche righe di descrizione pervenuteci dei Suoi Giardini, hanno provato a riprodurne le fattezze.
- Li vedo, li vedo. Siete un popolo ben pretenzioso se da poche righe di descrizione ritenete d’esser capaci di ricostruire un intero edificio, un’intera città. Noi Caldei interrogavamo lungamente il cielo prima di stabilire la forma di un edificio, non di certo poche frasi di qualche sconosciuto. Se questi sono i vostri riferimenti culturali…
- Maestà, noi il cielo nemmeno lo vediamo più, sa: l’inquinamento luminoso. In compenso ne sappiamo molto, ci siamo stati nel Suo cielo, ma non addentriamoci in questo argomento perché temo la Sua ira più di quanto tenga alle mie convinzioni. Torniamo ai Giardini, la prego. Questi disegni, queste riproduzioni, sono tutte errate?
- E me lo chiede? Non ho mai visto, né tantomeno progettato, una simile assurdità. Come le dicevo, il mio progetto per il verde di Babilonia fu molto più semplice di così, e in quanto tale infinitamente più elegante. Il progetto riguardava l’intera città, non un edificio da tappezzare di piante. Deviato e rallentato il poderoso corso dell’Eufrate sopra il suolo e sotto il suolo, con l’attento calcolo delle pendenze dei miei matematici e geometri, eravamo stati in grado di portare acqua potabile a scorrere in tutte le vie della città, raccogliersi in bacini, zampillare in fontane. Tanta era l’acqua benedetta del fiume, che la vegetazione lungo le sue sponde e lungo i canali che scorrevano in città cresceva più che rigogliosa, quasi impervia. I cittadini, come direbbe lei, a volte dovevano uscir armati di spada non per falcidiare i nemici, ma per potare l’erba alta e accedere al canale a lavare i panni. Lei capisce bene che era una spesa inutile mantenere un esercito per diserbare un argine. Mi preoccupai, pertanto, di trovare un sufficiente numero di giardinieri, un secondo esercito invero, che se ne occupassero e, come le dicevo, sedetti ad un tavolo con questi esperti conoscitori della natura e con i miei più dotti astrologi per trovare la perfetta comunione tra i loro saperi, sotto la mia supervisione e il sigillo del re. Dopo qualche mese di studi e progetti, avevamo chiaro in mente il programma da seguire per donare a Babilonia il suo nuovo aspetto.
- Un piano regolatore, insomma.
- Ne parla come se fosse una cosa d’uso comune, è così?
- Ma certo! Ciascun comune, volevo dire, ciascuna città se ne deve dotare: uno strumento urbanistico che prevede come la città debba espandersi nel futuro, e che aspetto la città debba avere, bilanciando al suo interno le aree a seconda della loro funzione, distribuzione ed estensione.
- Avete imparato bene la mia lezione dunque! Da come parlava dei giardini pensili temevo aveste perso del tutto le conoscenze dei Caldei. E a quali princìpi vi rifate per derivare le forme degli spazi delle vostre città?
- A dire il vero, Altezza, non abbiamo princìpi poi così rilevanti. Principalmente cerchiamo di tenere le altezze e le estensioni degli edifici entro certi limiti per non superare una certa volumetria di costruito, dunque separiamo la città in zone in cui si suppone ci si debba comportare in maniera differente, come il centro e la periferia, e cerchiamo di distribuire lungo tutta l’area della città le funzioni strettamente necessarie, da quelle commerciali a quelle residenziali, passando per le strutture gestionali.
- Mi sembra tutto veramente terribile. Non avete un criterio di base per stabilire cosa fare e come farlo?
- Così su due piedi direi di no. Forse la convenienza, quella economica si intende.
- Allibisco.
- Perché mai, Maestà?
- L’economia è uno strumento della politica, è cosa umana. La città è cosa naturale.
- Mi scusi, ma fatico a immaginare qualcosa che sia opera dell’uomo più della città.
- Lei si riconferma una persona estremamente superficiale, credo persino ignorante. Ritiene che lei ed io siamo così diversi da un uccello, da un tasso, da un coccodrillo?
- A dire il vero…
- Taccia! Siamo, noi e le bestie, e noi in quanto bestie, tutti figli dalla stessa natura, abbiamo le stesse pulsioni dell’uccello, lo stesso numero di zampe del tasso, la stessa fame del coccodrillo. Quando tra i rami l’uccello si fa il nido, quando il tasso scava la sua tana nel tronco morto, quando il coccodrillo sceglie sul fondale il fango più comodo per riposare, stanno forse facendo qualcosa di innaturale?
- No, Maestà.
- E per quale motivo la città, che è nostro nido, tana e fango, dovrebbe mai esulare dalle regole della natura, dall’ordine che suggeriscono gli astri, il vento e il corso dei fiumi?
- Si sono forse perse la sensibilità e la conoscenza necessarie per rivolgersi alla progettazione con questo Suo approccio.
- Questo mio approccio, lei dice, quasi con disprezzo. Ebbene questo mio approccio ha prodotto quello che siete stati voi a definire, mi diceva, meraviglia del mondo. Senza nemmeno che aveste capito realmente di cosa si trattasse. Ne avete prodotte, voi, di meraviglie del mondo? Ne avete, nella sua città, nel suo tempo, di meraviglie?
- A Milano dice? Proprio non saprei, probabilmente no. Ma la meraviglia è così: con modestia la si cerca e la si vede altrove, nella speranza che altrove si guardi a noi con meraviglia. O sbaglio?
- Certo che sbaglia. Io ero certo, ero sicurissimo di aver fatto qualcosa di meraviglioso col mio progetto per Babilonia. I lunghi viali di alberi verdi sempre e rigogliosi; le siepi, alte e fitte e fiorite a separare le case, i parchi, le proprietà; gli argini dei canali ricoperti di flora bassa e colorata, che celasse le donne al bagno e non impicciasse le canne e le reti dei pescatori; ogni piazza, ogni parco, splendente di fiori e di frutti e alberi cangianti con le stagioni; da ogni casa fiori alle finestre, rampicanti fin sopra i tetti, e sui tetti gli agrumeti e i fiori a portar ombra ai riposanti; finanche le mura di Babilonia accoglievano arbusti, rampicanti, fiori. E gli uccelli, e i pesci, e gli animali vi soggiornavano, vi migravano in un turbinio di petali e foglie. Volpi, cicogne, cammelli, albatri, rondini, corvi, cani, gatti, volatili d’ogni parte del mio regno e dei regni circostanti: la città era viva, traboccava di vita e di natura. E in così poco tempo. Quando Amytis giunse ne fu estasiata: non c’era centimetro di Babilonia dove un piede nudo non si posasse sull’erba soffice. In meno di un anno la città era divenuta l’Eden. In architettura, o in urbanistica, come diceva, la meraviglia è principio e fine ultimo.
- Solo la meraviglia? E la funzione? E la struttura? Quanto a Babilonia: sembra incantevole, Maestà.
- Funzione e struttura sono strumenti della meraviglia. Quanto a Babilonia: lo era.
- Quindi niente terrazzamenti, niente Giardini Pensili. Un vero peccato, non crede? Una simile struttura avrebbe giovato alla meraviglia.
- Se qualcosa ci fu di pensile, erano i rampicanti che, raggiunta una certa altezza, dovevano pur tornare giù. Una struttura complessa e sfarzosa è uno spreco, e l’inutilità è nemica della meraviglia. La magnificenza della struttura è d’uopo quando è rivolta agli Dei. Voi, invece, da quanto vedo, siete portati alla magniloquenza, la prosopopea, lo spreco: avete rinchiuso la Porta di Ishtar in questo edificio enorme, di cui vedevo arrivando un recente ampliamento, e lo capisco; ma vi pare il caso di scomodare sale e sale, e che belle sale, per ospitare braccialetti e punte di freccia? Tornando ai terrazzamenti, fatico a comprenderne la necessità. Potrei capirli per una capitale montana, ma Babilonia è in pianura, e tutto quello che bisognava fare per avere il verde in città, era aprire le porte al verde. La sola idea di costruire un edificio per ospitare delle piante mi fa veramente sorridere, anzi, proprio ridere.
- Ma, come le dicevo: alcuni architetti ed eruditi d’oggi che hanno visto nei Suoi Giardini Pensili, che credevamo esistenti, l’archetipo del loro operato, allo stato attuale delle cose in materia di ecologia e natura, non solo ritengono sia uno stratagemma brillante per integrare il verde nell’architettura, ma anche per rinvigorire la città di nuova natura; non solo che sia di beneficio per chi vive nell’edificio in questione, ma anche per le piante stesse che, fiorendo più in alto rispetto al consueto, possono spargere i loro pollini con una maggior gittata e trarre profitto da un’aria più salubre.
- Ma lei crede che se gli alberi avessero avuto bisogno di andare più in alto avrebbero costruito, o richiesto che gli venissero costruiti, edifici per spargere i pollini? L’albero, se vuole andare in alto, cresce: allunga il fusto, protende i rami, slancia le foglie. Costruire un edificio per le piante è come costruire uno specchio per le stelle: inutile, per specchiarsi hanno già il mare.
- Capisco, Maestà. Temo che le differenze tra il Suo e il mio tempo rendano i nostri pareri, le nostre sensibilità, come dicevamo, inconciliabili. Mi pare che l’argomento sia esaurito. Volevo chiederLe cosa ne pensa delle altre sei meraviglie ma…
- Penso che dovreste rivedere il vostro concetto di meraviglia, e cercarla nel vostro tempo, senza venire a disturbare il mio.
- Ecco Maestà, a proposito del Suo tempo, cambiamo argomento. Ha prima accennato al rapporto che ebbe con la Giudea, e ha anche detto che furono i Medi a farsi carico delle maggiori opere di distruzione. Ma non fu Lei a ordinare la distruzione del tempio di Salomone?
- Gerusalemme era insorta, e il mio governatore nel Regno di Giuda chiese, giustamente, l’aiuto del suo re. I popoli di quelle terre sono sempre stati riottosi, la distruzione, quando necessaria, è un atto più significativo della costruzione. Non li costrinsi, però, a vivere tra le rovine. Li portai con me a Babilonia.
- Come schiavi. Ecco, la sua figura è, per i miei contemporanei e da lungo tempo, strettamente legata alle sorti di quei popoli che Lei ridusse in schiavitù. Un mio connazionale, noto compositore, Le ha intitolato un’opera, il Nabucco, narrando proprio di questo suo rapporto che definirei conflittuale con Gerusalemme ed il suo popolo. Popolo che, nel corso dei secoli seguenti, si è ritrovato più volte a subire angherie, distruzioni, morti e schiavitù da parte di potenti sovrani di altre nazioni, da ultimo meno di cento anni orsono. Non sente, Maestà, il peso di aver stabilito un precedente in tal senso? E non crede che questa retorica della distruzione come atto significativo contrasti con la sensibilità di cui si fregiava poc’anzi? Chi costruisce seguendo le regole delle stelle, è pronto ad assecondarle qualsiasi sia il loro ordine?
- Continua a farmi domande per cercare di farmi passare per il mostro che non sono. Quanto alle stelle, esse suggeriscono, non ordinano; il re, l’architetto, deve interpretare e sfruttare al meglio il suggerimento secondo la sua necessità e, ripeto e non lo ripeterò più, sensibilità. Quanto ai gerosolimitani, agii nei loro confronti come avrebbe agito qualunque re, e le ragioni che ebbi nel fare quanto feci non sono semplici come le vuole far passare lei. Mi compiaccio che il suo conterraneo mi abbia dedicato un’opera, ma mi pare di capire che non sia poi così lusinghiera per me. Altresì intuisco da quanto dice che Gerusalemme fu poi ricostruita, e il suo popolo perdura, ma di Babilonia non v’è più traccia. In questo senso, distruggere non è forse un atto fondamentale perché si ricostruisca? E perché mai Babilonia non fu mai ricostruita?
- Certamente, difatti il tempio di Salomone fu ricostruito non troppi anni dopo la sua morte. Salvo poi essere nuovamente distrutto.
- Ciò che si fece dopo non è affar mio. Quanto al precedente di cui mi domandava, io non ho stabilito un bel niente, siete voi, semmai, a leggere nel passato le fantasie che ritenete comode per raccontarvi il presente. Ma mi risponda, che ne fu di Babilonia?
- Maestà, eccezion fatta per i Giardini che lei mi dice non siano mai esistiti, Babilonia ha rivestito, e tutt’ora riveste, il ruolo dell’antagonista nella nostra storia e nella nostra mitologia. Tutt’ora il termine Babilonia viene utilizzato non per riferirsi alla città, ma ad un grave stato confusionale dei fatti o dei pensieri. La Babilonia dei sentimenti è la sensazione scomoda di un amante combattuto, la Babilonia delle stoviglie è l’ammontare eccessivo e rinfuso delle pentole al termine di una cena, la Babilonia dei discorsi è l’insieme delle ciance vuote e numerosissime che si fanno attorno a un argomento. La sua città è sconveniente, scomoda, caotica, sinonimo di meretricio e corruzione, di smodato attaccamento all’oro e alla carne, di confusione, insalubrità, cemento e perdizione.
- E la sua città, invece, Milano? Di cosa è sinonimo?
- Delle stesse cose, più o meno.
- Benissimo. Ora può andare.
- Arrivederci, Maestà.