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Il modello Arup: A history of innovation – di Gabriele Del Mese (tratto da: L’ingegnere italiano n.381)

Il modello Arup: A history of innovation – di Gabriele Del Mese (tratto da: L’ingegnere italiano n.381)

Autore: redazione
pubblicato il 24 Luglio 2022
nella categoria Parole

Giugno 2022

Quando, senza un appuntamento né tantomeno un invito, nell’anno 1972 - giovane ingegnere civile edile, laureato a Padova, con la testa piena di sogni – spinto da una curiosità incontrollabile bussai alla porta del famoso Studio di Ingegneria ARUP nel West End di Londra, mai e poi mai avrei immaginato che una ‘estemporanea chiacchierata’ durante una breve vacanza in Inghilterra avrebbe innescato un lungo e passionale legame destinato a durare per il resto della mia vita lavorativa. Quelli erano gli anni incredibili in cui il signor Ove Arup - l’ingegnere filosofo - e i suoi leggendari collaboratori, non solo stavano completando ‘l’impossibile’ progettazione e costruzione della Sidney Opera House, ma da poco avevano anche vinto il concorso internazionale per il nuovo Centro Culturale Pompidou a Parigi. È facile immaginare l’effetto ipnotico e la curiosità che queste circostanze potessero avere su un qualunque giovane ingegnere, curioso di vedere e capire come fosse possibile gestire e organizzare in modo creativo una professione che nella sua quotidianità può avere tanta noiosa routine certamente non sempre piacevole.

A dispetto del mio scadente Inglese di allora, ma grazie soprattutto all’uso di una matita, mi fu concessa una ‘chiacchierata’ con uno dei loro ingegneri che durò ben più di due ore ed ebbe il distinto sapore di un esame di progettazione strutturale su alcuni aspetti relativi ad un importante progetto che era sui loro tavoli in quel periodo. Durante il ‘colloquio’ mai si parlò di una eventuale richiesta di lavoro da parte mia, anche perché avevo già iniziato una discreta attività in Italia che intendevo migliorare carpendo magari qualcosa del loro metodo e applicarlo poi alle cose piccole di cui mi occupavo. Fu quindi una grande sorpresa che dopo il mio ritorno in Italia ricevetti una lettera da Arup, con una offerta di lavoro direttamente nella sede centrale di Fitzroy Street, a Londra. Dopo notevoli riflessioni accettai con l’intenzione di restarci al massimo un paio di anni. Ma ben presto l’eccitazione di poter lavorare in tutto il mondo su progetti importanti, collaborando in modo creativo e certamente non subordinato, in team multi-disciplinari integrati, ebbe su di me un effetto come di droga. Ebbe molto peso anche il fatto che dopo solo tre mesi ero a capo di un numeroso team strutturale che si stava occupando di un grande progetto in Medio Oriente: proprio il progetto sul quale mi avevano fatto il colloquio. L’adrenalina fu veramente tanta. Questo era il tempo in cui non c’era ancora l’Unione Europea, e i vari scambi culturali di tipo Erasmus erano ancora da venire.

Posso dire di essere stato l’unico ingegnere ‘Italiano’ in Arup fino a quando io stesso non riuscii ad assumerne altri quando fondai ‘Arup Italia’ a Milano nel 2000, luogo di lavoro aperto soprattutto ai nostri brillanti giovani Italiani che, come me, hanno fame di vivere una avventura sociale attraverso il campo della “Architettura Totale”. Sono anche stato l’unico designer in Arup, almeno finora, a trascorrere i primi dieci anni nei gruppi di ingegneria, i secondi dieci anni nei gruppi di architettura, i terzi dieci anni di nuovo con gli ingegneri, per chiudere infine con la mia ‘missione sociale’ di progettazione creativa in Italia.

Vale la pena soffermarsi brevemente su alcuni motivi che mi spinsero a prendere una delle decisioni più importanti della mia vita. Il punto di partenza fu certamente la convinzione che nel mio paese di origine, l’Italia, mai e poi mai a giovani di 20-30 anni si sarebbe data l’opportunità di gestire team e progetti complessi - grandi, vari e difficili - in quasi totale indipendenza creativa.

Quello che viene ora chiamato il ‘modello Arup’ scaturisce da, e si fonda su, basi filosofiche e conoscenze condivise tra persone che intendono perseguire con passione l’eccellenza professionale, lavorando in gruppi multi-disciplinari-integrati in cui la condivisione culturale del sapere fa di ognuno un protagonista creativo che considera il suo lavoro come parte di una importante ‘missione sociale’ nella quale il frutto del lavoro, il guadagno, non è al primo posto nella scala dei valori. Infatti, lo Studio Arup è da tempo un ‘Trust’, una Fondazione che appartiene a tutti quelli che ne fanno parte e lo è solo fino a quando vi ci lavorano.

Il signor Ove Arup, nato in Inghilterra da genitori Danesi, prima di darsi agli studi di ingegneria, studiò filosofia. Forse questo ebbe un peso importante sulle direttive da lui stilate per la sopravvivenza del suo Studio ben oltre la sua vita terrena e quella dei suoi partner iniziali. L’annullamento della proprietà, sostituita dalla creazione di un Trust a solo favore di tutti i componenti dello Studio, fu una geniale iniziativa filantropica che sta trovando imitatori anche in altri contesti e Paesi.

 Insieme alla rinuncia della proprietà, Arup è stato anche il primo a promulgare la teoria della ‘Total Architecture’secondo la quale ogni opera architettonica va considerata come il risultato di tutti i contributi di un team multi-disciplinare e integrato in cui gli specialismi tecnologici non sono passivi o subalterni nei riguardi della architettura, ma sono forze creative di pari importanza che determinano il successo o meno dell’opera stessa. Il concetto di ‘Architettura Totale’ e il metodo di collaborazione condivisa del sapere, diventano così una vera e propria attitudine mentale, indipendentemente se siano tutti presenti nello stesso Studio, purché ci siano fin dall’inizio.

Questo concetto, enunciato nel 1970, rappresentò già allora una rivoluzione culturale e, come spesso succede quando ci sono evoluzioni, attirò molte critiche nei confronti di Arup, perché la convinzione generale del tempo considerava come opera d’arte prioritaria solo l’architettura, relegando tutte le componenti tecnologiche (da cui poi dipendeva anche il successo o il fallimento dell’opera), a semplici collaborazioni ‘servienti’ del genio creativo dell’architetto.

Questo modo di pensare è tuttora presente, ma in realtà è obsoleto e tutt’altro che veritiero. Il concetto di ‘Architettura Totale’ introdotto da Arup nel 1970, richiama alla memoria la famosa diatriba sul bello e sull’arte che si sviluppò nel ‘600-‘700. La polemica, nata in ambiente letterario, si estese al campo filosofico. Ed è così che nella prima metà del secolo XVIII, Leibniz - sommo filosofo e matematico - alla netta separazione tra materia e spirito, o senso (intuizione artistica) ed intelletto (matematica e scienze esatte) istituita da Cartesio, oppone la teoria per cui senso ed intelletto non sono assolutamente separati ma sono ‘gradi di una medesima realtà spirituale’.

Pur avendo fondato il suo Studio nel 1946, Arup scrisse e pronunciò un discorso storico, noto come ‘The key speech’, ovvero il ‘discorso chiave’, nel 1970. In esso illustrava i punti importanti che dovevano essere alla base della sua organizzazione. La transizione legale da ‘società tra partners’ a ‘Trust/Fondazione’ avvenne qualche anno dopo. Io ricordo bene l’impressione che fece su di me quando Arup e i suoi ‘senior partners’ si dimisero, rinunciarono alla proprietà, continuando come ‘Amministratori’ della Fondazione. I principi filosofici fondanti hanno fatto sì che oggi “Arup” è l’insieme di più di 16.000 specialisti, copre circa 90 discipline scientifiche ed ha progetti ed uffici in più di 140 nazioni. Ed ancora oggi la Fondazione/Trust nomina a rotazione gli ‘Amministratori Esecutivi’ il cui compito, oltre alla gestione meccanica degli affari, è quello di farla mantenendo vivi i principi fondanti di Arup.

Dato il successo e la notevole crescita della Fondazione Arup, vale la pena di richiamare alcuni dei punti importanti di questa filosofia che anche molte organizzazioni stanno ora cercando di adottare.

Gli obiettivi principali del ‘Modello Arup’ – elencati nel ‘Key Speech’ – sono i seguenti:

La scelta di personale adatto preoccupa Arup che, a questo proposito scrive:

… il nostro metodo di selezione del personale è importante, come importante è ciò che possiamo fare per formare le nostre ‘risorse umane’ e offrir loro una buona opportunità di crescita, …. l’assunzione e il trattamento del personale non devono degenerare in una mera routine burocratica, ma essere gestiti a ‘livello personale’. Quando ci imbattiamo in un soggetto davvero ottimo, dobbiamo prenderlo anche se non sappiamo subito cosa farne, e poi facciamo in modo che resti con noi…. Perché mai un ottimo soggetto, sia esso uomo o donna, che potrebbe ottenere un impiego ovunque o che potrebbe iniziare un’attività in proprio, dovrebbe scegliere di stare con noi? Se abbiamo una risposta convincente e positiva, allora siamo sulla strada giusta. Un ottimo soggetto, presumibilmente, viene da noi innanzitutto perché gli piace il lavoro che facciamo e condivide la nostra filosofia o vi è stato convertito. In caso contrario, non ci sarebbe molto utile. Il soggetto ideale non è particolarmente attratto dal salario che possiamo offrirgli, anche se questo, ovviamente, è un punto importante, quanto dall'opportunità di svolgere un lavoro interessante e gratificante in cui possa usare la sua capacità creativa, dare il massimo, crescere ed essere responsabilizzato…. Non vedo il motivo di avere un’organizzazione talmente vasta, con uffici in tutto il mondo a meno che esista qualcosa di speciale che ci unisca tutti…

Se non abbiamo una ‘missione’ (anche se non amo questa parola), o qualcosa di più ‘alto’ verso cui tendere (e non amo particolarmente neanche questa espressione), se non ‘sentiamo’ di avere un contributo speciale da offrire (che proprio le nostre dimensioni e diversità e la nostra intera visione possono aiutarci a realizzare), io, per primo, non sono interessato…. Presumo che anche per voi sia lo stesso e, pertanto, le mie parole vi possono sembrare superflue; ma per me non è sufficiente che voi lo pensiate, dobbiamo far sì che tutti, fin dove possibile, nell’azienda lo pensino e che credano che noi, i leader dell’azienda, ci crediamo veramente, che intendiamo lavorarci seriamente e che non ci limitiamo solo a sbandierare questo concetto. Non ci crederanno se non ci crediamo veramente noi stessi.

Sul problema della ‘proprietà’ Arup si esprime in questo modo:

Un problema particolarmente spinoso è la questione della proprietà, che ovviamente è collegata al concetto di 'partnership'… Nella ‘Ove Arup Partnership’ abbiamo praticamente eliminato la ‘proprietà’: i partner senior agiscono in qualità di proprietari solo durante la loro carica perché qualcuno deve fungere da proprietario secondo le leggi nazionali….

E conclude dicendo:

Quello che infine voglio sottolineare è il fatto ovvio che per quanto si possa concepire una organizzazione magnifica, resta il fatto che il suo successo dipenderà solo dalle persone che lavorano in essa e per essa. E se tutti i nostri membri crederanno sinceramente e concretamente nelle finalità che ho elencato e ne fossero entusiasti, la battaglia sarebbe quasi vinta….

Il discorso di Arup continua dettagliando in modo affascinante varie situazioni e proponendo soluzioni che riguardano tra l’altro organizzazione interna e le pari opportunità.

L’intero documento – reperibile sul sito internet di Arup – rimane una pietra miliare di saggezza e di illuminismo sociale.

Indubbiamente il ‘Modello Arup’ rende affascinanti e socialmente utili le professioni scientifiche, ma alla fin fine, quanto di tutto questo sarebbe possibile attuare in un Paese come l’Italia dove, a tutt’oggi, non esiste ancora una Legge sull’Architettura? e dove il lungo declino delle Istituzioni Pubbliche e imprenditoriali  influenza negativamente qualunque moto innovativo? dove la professione/missione-del-progettare è frazionata tra molti e diversi sistemi di associazionismo non sempre regolato? dove le ‘Imprese di Costruzione’ con i loro studi interni di ingegneria possono sconvolgere i progetti a loro vantaggio, non a quello della comunità? dove nelle Università c’è una proliferazione incontrollata di titoli di Ingegneria di difficile comprensione o di confusa attribuzione sociale? dove troppo spesso le Università insegnano prevalentemente agli ingegneri come manipolare programmi informatici ed essere quindi ‘numerai perfetti’ piuttosto che pensatori-designer e progettisti di idee creative? dove troppi dei nostri giovani brillanti fuggono all’estero in cerca di sfide migliori?

Io ho fiducia che dopo questo lungo e continuo declino, una buona parte del ‘Modello Arup’ entri a far parte di un risveglio tutto Italiano, e mi auguro che il prossimo futuro sia migliore del presente e che i giovani progettisti Italiani abbiano l’opportunità di restare o rientrare in Italia per migliorare il mondo con la loro forza creativa.