Autore: Alessandra Muntoni
pubblicato il 6 Maggio 2022
nella categoria Imprevisti e probabilitá di Alessandra Muntoni
L’ultimo fascicolo di “Rassegna di Architettura e Urbanistica” (n. 165, settembre-dicembre 2021) porta il bel titolo Lezioni dal Sud del mondo e, proprio oggi che si comincia a mettere in discussione il pensiero globalizzante, ci spiega che invece del mondo conosciamo davvero pochissimo. Inoltre, quello che mi sembra più importante è che l’impostazione della ricerca, coordinata da Maria Argenti e Francesca Sarno, offre una inversione di tendenza nell’interpretare ciò che conta e ciò che è rimasto indietro nella cultura architettonica e nella trasformazione del territorio. Nell’Editoriale, a firma delle curatrici, si legge infatti che solo “rovesciando il punto di vista” di una supremazia del pensiero nord-occidentale si possa imparare “la lezione dal Sud del mondo, in termini di pertinenza e creatività sostenibili, di rispetto del genius loci e di capacità di interpretare le necessità contingenti”. Può sembrare sorprendente ma, di fatto, nonostante questi argomenti siano da anni bagaglio quotidiano del contemporaneo nord-occidentale, è proprio nei paesi del Sud del mondo che si trovano architetti, scuole universitarie e realizzazioni che offrono risultati capaci di rimettere in movimento idee e metodi da noi ormai logorati e incapaci di entrare in sintonia con la realtà. Nel Sud, invece, questa sintonia sembra in grado di affermarsi.
Il fascicolo illustra opere del delta del Bangladesh, dell’Africa (Burkina Faso, Congo, Kenya, Nigeria, Zambia), Sud America (Brasile, Uruguay, Perù, Cile) o dell’India, riprendendo anche itinerari già percorsi da riviste come “Domus”, “Boundaries” o “Industria delle costruzioni”, ma collegando questa ricerca a un ampio contesto di lavoro professionale, teorico e didattico di molti architetti europei attivi in questi (terzi) mondi e di architetti locali ormai capaci di esprimersi disinvoltamente con linguaggi originali. Ne emerge un panorama insieme fragile e rassicurante, modellato tutto sulla piccola scala, sulla casa o sulla scuola, sul centro culturale o sul presidio medico, così da far pensare che l’immaginario collettivo di questi popoli del Sud sia ancorato non tanto alla società, quanto alla comunità e che l’equilibrio perduto nella gigantesca megalopoli che tutto fagocita e tutto confonde non possa trovarsi se non nel recupero responsabile di un passato lontano legato ai valori della terra, dei materiali naturali, della pietra, del legno, del bambù, dell’argilla cruda, della paglia, dalla corda, del lavoro manuale. Insomma, che l’archetipo della capanna, e non il fragore complesso delle conurbazioni, sia da rivisitare, da ripercorrere, da far proprio.
Il saggio Studiare architettura a Talca, ad esempio, è da questo punto di vista di grande interesse. L’autore, Juan Romain, è dottore di ricerca in Architettura e Patrimonio artistico dell’Università di Sevilla e attualmente direttore della Escuela de Arquitectura dell’Università di Talca, nel Cile. Il suo metodo didattico è insieme semplice e differente da quanto vediamo nelle nostre Facoltà. Nessuna teoria prevaricatrice, ma un diretto contatto con la terra, i materiali originari, la realtà vegetale e zoologica: diciamo una sorta di progettazione en plein aire, in grado di far assumere alla memoria delle proprie radici il ruolo di segnale portante dei contenuti e delle tecniche per realizzare un progetto. Seguendo un itinerario di Atelier − il Taller de la Materia, il Taller de Agosto e il Taller de Titulación − si giunge a realizzare una Obra con la quale si ottiene il titolo di architetto. Corrisponderebbe alla nostra tesi di laurea, ma si tratta di opere vere, concrete, piccoli esempi di Land Art che vengono considerati validi quanto più incontrano l’interesse della comunità: siano esse allestimenti di pietre trovate e ricollocate secondo una coreografia ritmica, oppure un percorso ascendente con un mancorrente frammentato, o piccoli piani sospesi entro un esiguo recinto di muratura a secco…Basta che chi ci passa vicino, sia un pastore che conduce al pascolo dei lama sia un gruppo di abitanti locali, ne resti in qualche modo irretito.
Alberto Ferlenga, in Verso il Sud, cita il Cile come “vetrina dell’architettura sudamericana di questi anni”, punto di arrivo di una ricerca che sa mescolare abilmente tradizione naturale e temperie contemporanea. Credo che alcune opere dell’architetta cilena Cazú Zergers, siano la risposta più convincente di questo percorso: ad esempio nel “Tierra Patagonia Hotel” costruito tutto in legno Lenga, disegnato per curvature come delineate dal vento, radicato nel Parco Nazionale con vista sul Lago Saramiento bordato da spettacolari montagne innevate (“Domus”, maggio 2016).