Autore: Antonio Tursi
pubblicato il 10 Aprile 2022
nella categoria Parole
Le fratture, le fenditure nella città o meglio tra pezzi persino incomunicanti di città possono essere recuperate? Comprese in maniera diversa rispetto al manicheismo di una divisione insanabile? Considerate, addirittura, come opportunità per il futuro di megalopoli come San Paolo?
Può essere utile attraversare San Paolo accompagnati da un viaggiatore culturale come Arjun Appadurai. L’intellettuale anglo-americano ritorna nella sua Mumbai, altra megalopoli traboccante di umanità, la esplora e ne squaderna elementi utili a cogliere dinamiche ormai comuni a molte città in cui convivono l’una accanto all’altra, la fabbrica fordista, la produzione manuale e artigianale, le economie di servizio, la finanza globale. Tale promiscuità di attività e tempi nelle città globali genera buchi neri sociali, come nel caso delle favelas brasiliane. Ma proprio negli slum di Mumbai si possono coglie alcuni elementi di assoluto interesse per osservare il mondo contemporaneo nei suoi popolosi epicentri.
In primo luogo, è necessario sottolineare che si tratta di spazi autocostruiti, utilizzando materiali di scarto o comunque facilmente disponibili e dispiegando una cifra estetica specifica, degna persino di giri turistici, come dimostrano alcune favelas di Rio pacificate e ormai meta di visite guidate. L’abitare “in questi insediamenti informali viene consacrato dal dimorare-attraverso-il-costruire e dal costruire-attraverso-il-dimorare”. Una volontà e una capacità di costruire, nella più completa indigenza ed incertezza, un insediamento, un segno tangibile della propria presenza. Si tratta di insediamenti fatti dai e rivolti ai poveri. Da questo elemento non si può prescindere per abitare megalopoli di milioni di persone: dal loro impegno progettuale. Le famiglie povere sono dotate di capacità progettuali e di una saggezza pratica indispensabili per far si che megalopoli come Mumbai o come San Paolo non implodano nelle loro contraddizioni.
In secondo luogo, in queste zone emerge un’economia specifica. Diversa dall’economia legale della città ma che, nel caso brasiliano, non coincide neppure con la macroeconomia illegale del narcotraffico. Un’economia resa possibile da una sorta di illegalità di ripiego: basata sul contante e in alcuni casi persino sul baratto, su scambi non registrati, su compravendite di merci la cui provenienza non è sempre trasparente, su servizi resi senza certificazioni di qualità. Si tratta di una serie di attività minute e di un commercio di strada che danno vita a una economia di prossimità. Vitale per creare reti sociali che coinvolgono e sostentano migliaia se non milioni di persone in ciascuna megalopoli, milioni di faticatori semilegali. E bisogna riconoscere che “le metropoli fioriscono quando consentono un’illegalità di ripiego”, come nota lo scrittore indiano Suketu Mehta, altrimenti rischiano di produrre una esclusione tale da impedire qualsiasi convivenza tra diversi.
In terzo luogo, questa energia progettuale ed economica va riconosciuta come una vera e propria rivendicazione dell’abitare. Come una modalità specifica della cittadinanza. Ciò consente di costruire reti di collaborazione con gli abitanti di questi luoghi, mettendo in campo progetti sperimentali, facendo valere la forza del precedente o dell’esempio, raccontandolo. Appadurai descrive il caso dei gabinetti pubblici, la cui progettazione, costruzione e manutenzione è affidata a organizzazioni costituite negli slum e che rispetto a questa problematica hanno già maturato esperienza e posseggono competenze tecniche basilari ma credibili, soprattutto da chi quei gabinetti li dovrà poi usare.
In quarto luogo, il precedente, la collaborazione, la sperimentazione sviluppano una politica della speranza, della pazienza, dell’attesa. Una politica che non si incardina nella gestione delle emergenze (short-termism) ma genera nei poveri urbani la “capacità di avere aspirazioni”. Li riconosce come partecipanti attivi del processo. Attivismo che loro dimostrano ogni giorno autocostruendo le proprie dimore, autogestendo le loro economie, autogovernandosi, autorappresentandosi. Un attivismo che potrebbe, persino, alimentare gli esangui canali di rappresentanza della politica istituzionale.
“La democrazia profonda è una democrazia a portata di mano, una democrazia di quartiere, di comunità, di parentela, di amicizia, che trova espressione nelle pratiche quotidiane dello scambio di informazioni, della costruzione di case e gabinetti e del risparmio”, conclude Appadurai.
Queste coordinate ci permettono di inquadrare la situazione di molte città brasiliane polarizzate, a iniziare da San Paolo. E molti “piccoli” episodi che ci può capitare di osservare visitandole. A San Paolo, per esempio, bisognerebbe interrogarsi sul ruolo del centro storico: abbandonato per altri quartieri dall’élite e oggetto di occupazioni abusive dei caseggiati disabitati. Oltre che nel caso delle favelas, il problema dell’alloggio si è posto, infatti, per quello che è stato lo storico cuore dalla città, che nel decennio 2000-2010 ha acquisito, senza una regia dall’alto, sessantamila nuovi abitanti. [3/4 continua]