Autore: Gabriello Grandinetti
pubblicato il 06/04/2022
nella categoria Parole
Ciò che appare più destabilizzante in questo tempo sospeso che accelera l’imbarazzo della nostra incredulità, per l’avverarsi ciclico della “banalità del male”, dissepolta dalle pagine di Hannah Arendt, è la percezione di un’assoluta mancanza di senso per tutte le implicazioni che discendono dal dramma ucraino in atto.
Ieri come oggi, nell’epoca di questa Nuova Era in cui sembrano saltare tutti i paradigmi, come i tasti di un pianoforte scordato, occorre resettare ogni residuale senso di colpa che ricade in quel circolo vizioso dell’analisi documentale dei fatti da cui discendono le “attribuzioni teoriche delle responsabilità” che confluiscono in quel luogo comune che pretende poi di non stare “né da una parte né dall’ altra”. Secondo uno schema che abbiamo già visto in uso degli anni 70: “né con lo Stato né con le BR “perdendo l’occasione di schierarsi dalla parte giusta della storia.
Si è detto, attraverso i media, che la prima vittima della guerra è la verità. Come non essere d’accordo? In quale altra circostanza la manipolazione dei fatti precede l’usurpazione sistematica del significato delle parole? Tucidite denuncia già nel V secolo, a proposito della guerra di Corfù, il cambiamento del significato consueto delle parole in rapporto ai fatti. Chissà se in epoca odierna non sia già in uso l’adozione di neologismi come forma neutra di “Guerra”, più consoni alla linea adottata da Putin? Avendone imposto il veto anche a parole come “invasione”, “offensiva” ecc.
Nel suo discorso allo Stadio Luzhniki di Mosca, nella foga di aderire allo zeitgeist appena inaugurato, ha convertito il senso di quell’ invasione di carri armati in assetto di guerra come: “Intervento militare speciale contro l’Ucraina”. Quell’evento pubblico festante riassume in forma spettacolarizzata la suggestione di una narrazione “in vitro”, da apparire astrattamente confezionata ad usum delphini nel contesto moscovita. Mentre sullo scenario mediatico globalizzato, la rete di comunicazione assume tutte le facce di interconnessione per cui è facile constatare che -il Re è nudo- come ultima incarnazione del suo trasformismo tirannico.
Le città ucraine con le loro vestigia martoriate dal gioco perverso della catastrofe, ridotte al grado zero di una civiltà interrotta, appaiono come ectoplasmi di una decostruzione aberrante. Le immagini dei reportages mostrano un percorso cinematico del tessuto urbano trasfigurato, senza soluzione di continuità. La collisione dei missili sulle facciate dei condomini residenziali multipiano, spesso attraversati da parte a parte, non ha risparmiato i vetri delle finestre e i muri di tamponamento, che per effetto della pressione deflagrante degli ordigni sugli edifici circostanti li ha resi perciò inservibili, lasciando ancora in evidenza ciò che rimane delle suppellettili all’interno di celle vuote e fumanti. L’illusione della ricostruzione mnemonica dei suoi abitanti, per come ci viene trasmessa dai canali televisivi, si consegna esausta alla fascinazione di un incubo come il luogo della scomparsa inesplicabile di SENSO. Il principio della fine, come narrazione episodica dei sopravvissuti, che non coincide mai con quella di Regime, dai riscontri circa gli Ospedali colpiti o le Università, i depositi alimentari o la Croce Rossa, per effetto di un paradosso sarebbero da attribuire “alla solita messa in scena degli ucraini di Zelensky”. Tutto ciò implica un principio di Realtà altalenante, differito per difetto, come nel medium Orwelliano che ancora abita da quelle parti.
Tuttavia lo spirito di conservazione dei cittadini prende il sopravvento finanche nell’estremo tentativo di proteggere i suoi monumenti dai colpi dell’artiglieria russa preservandoli con pile di sacchi di sabbia. A Odessa, affastellati sul monumento del duca Richelieu, nei pressi del porto come altrove sembra perpetuarsi con Seneca la voglia di riaffermare la locuzione latina ars longa vita brevis che traspare dall’insensatezza degli uomini ma che qui oppone ogni atomo al caos, trascendendolo, con prove di rinnovata resilienza.