Autore: Gabriello Grandinetti
pubblicato il 11/01/2021
nella categoria Parole
Oscar Wilde intravedendo che i grandi peccati dell’umanità vengono consumati nell’intimo del cervello, nel domandarsi se non sia proprio quella la sede dove tutto accade, osserva che: “adesso sappiamo che non vediamo con gli occhi, né udiamo con le orecchie, essi non sono che dispositivi per trasmettere con più o meno esattezza le impressioni dei sensi. E’ dentro il cervello che il papavero è rosso, che la mela odora, che l’allodola canta.” ( De Profundis ) Forse tutto ciò ha a che fare con un’intuizione che già sembra precorrere gli studi sulle categorie percettive sviluppatesi in seguito con le teorie della Gestalt… << Se ci rivolgiamo decisamente a criteri gestaltistici potremmo sostenere che, in definitiva, il significato estetico equivale sempre all’organizzazione dell’opera, ossia ai rapporti tra le parti e il tutto, alla “bontà” alla pregnanza delle singole forme, alla più o meno raggiunta globalità dell’immagine>>. Così Gillo Dorfles nella sua prefazione al libro “Arte e percezione visiva” di Rudolf Arnheim ( Feltrinelli Ed. Milano) nel sottolineare la sistematica impostazione gestaltica di quei principi, il cui approccio psicologico per lo studio delle opere d’arte si sarebbe ripercosso come il contrassegno di un metodo universale, sembra convalidarne il meccanismo espressivo che conduce a un significato immanente nell’opera. Occorre sottolineare che la fortuna critica del libro di Arnheim, divenuto ben presto la guida concettuale più parafrasata dai manuali sulla fenomenologia della visualità, costituisce l’antefatto di un’investigazione scientifica che getta una luce sulla coerenza delle modalità percettive rispetto ad alcuni aspetti illusori e ingannevoli di ciò che l’occhio riporta. Il volume affonda radici che Dorfles individua lungo una linea di pensiero critico che muove da Goethe, Carus, Bentrano, Stumpf, Wertheimer, Husserl, Kohler, Koffka… che risalendo alla base delle facoltà percettive umane, conduce ad una “dottrina della percezione artistica dunque estetica”. Assumendo lo spazio tridimensionale, come il luogo dei fenomeni in cui osserviamo le relazioni che intercorrono tra la forma (come attributo degli oggetti) e la distanza, l’interpretazione del campo percettivo ( inferenza visiva ) aggiunge il contributo di un processo intellettuale che ha sede nel nostro cervello”. Nell’esperienza visiva, tutti gli effetti di profondità sono creati dal sistema nervoso e dalla mente”. Un concetto che Arnheim sembra far convergere su : “La visione non è una registrazione meccanica di elementi, ma l’afferrare strutture significanti…” rappresentative cioè della sfera semantica ed estetica. La capacità selettiva del cervello, di discriminare i fenomeni percettivi del mondo esterno come esito degli organi sensoriali su una mappatura retinica interpretativa, è in relazione con il postulato dell’Isomorfismo in cui si individua una corrispondenza biunivoca tra le strutture del mondo fisico (fenomenico) e quello del processo psichico sottostante. La modalità percettiva spaziale, in rapporto con l’inquadratura, influenza la visione del soggetto percettore attraverso l’imbuto della prospettiva centrale. Così come l’effetto delle “proiezioni convergenti” che, in quanto fenomeni di illusione ottica, ne restituiscono l’interazione con un mondo omogeneo “deformato” continuamente rielaborato dal sistema nervoso. Al sorgere di una conoscenza fisiologica percettiva si comprende la visione stereoptica binoculare che “fondendo” le sfasature del campo percettivo, di entrambi gli occhi, ne consente l’effetto di tridimensionalità. Il procedimento inverso che dalla percezione dello spazio tridimensionale conduce alla messa a punto di un suo equivalente geometrico/pittorico, scaturisce dall’invenzione della prospettiva, di cui R. Arnheim riporta la definizione di Andrè Bazin come: “il peccato originale della pittura occidentale” con ciò ribadendo che “ Nel manipolare gli oggetti per dar luogo all’illusione della profondità, l’arte pittorica perde l’innocenza.” ( …) “Il mistero della rappresentazione prospettica consiste nel fatto che fa sembrare giuste le cose facendole sbagliate” (op. cit cap. III pag.107-215.) - La perspectiva artificialis di fatto non tiene conto dell’effettivo incurvamento retinico fisiologico – Possiamo inoltre osservare che, per le implicazioni che sottendono alla costanza percettiva, se si osservano oggetti della stessa grandezza posti a distanza crescente, i parametri dimensionali si riducono proporzionalmente per effetto della diminuzione delle grandezze apparenti. Per il fenomeno della costanza gli oggetti sono percepiti come dotati di invarianza, a fronte della variabilità della distanza. Tuttavia, non si può esser sempre certi di poter soddisfare il fenomeno della costanza percettiva da una semplice postazione di osservatori di un’opera pittorica, per certi aspetti contraddittoria, come “Il cristo morto” (1480 ca. ) di Andrea Mantegna, che si trova nella Pinacoteca di Brera. Le tesi interpretative dell’opera, a lungo dibattute, ci sembrano in linea con quanto sopra evidenziato. Predisponendo il punto di vista del Christo, in scurto, cioè fuori dallo schema usuale iconografico che discende dell’imago pietatis, Mantegna conferisce maggior risalto alla corporeità della figura, con la testa, il busto, gli avambracci, le mani, giacenti in secondo piano in prospettiva centrale. Mentre per le rimanenti estremità anatomiche adotta una transizione prospettica di tipo isometrico. L’immagine pittorica così ottenuta, perviene ad una simultaneità visuale della tensione in atto tra due sistemi figurativi indipendenti che obbediscono a regole geometriche in cui il primo piano si contrae rapidamente, per effetto della distorsione “scorciata”. Tale artificio dà luogo ad un cortocircuito emozionale di rimbalzi visuali, nell’interazione continua con il secondo piano che risulta invece preminente. Nella pretesa forse inconscia di attivare nell’osservatore un processo di compensazione proiettiva plausibile, dislocata ben oltre quel “fermo immagine” espulso da ogni residua ambiguità percettiva. Ma, tant’è, che qui tutto sembra obbedire, tout court, ad una assoluta e deliberata libertà espressiva dell’artista che si sovrappone empiricamente finanche al vertice della piramide proiettiva. Del resto dal Rinascimento in poi, i dispositivi di distorsione prospettica adottati con ingegnosità dagli artisti e dagli architetti che frequentano a vario titolo la vertigine dell’anamorfòsi, preannunciano una sottesa configurazione di forze antagoniste che entrano in scena inaspettatamente, al pari di un deus ex machina, sul filo dell’artificio tra la realtà e quanto di illusorio avviene sulla nostra retina. Scorrendo solo alcuni esempi paradigmatici: Vedi la galleria di Palazzo Spada a Roma (1635) di Francesco Borromini il cui colonnato conduce da un indizio di profondità al progressivo disvelamento di un ineffabile marchingegno costruttivo, fatto di superfici declinanti, volte convergenti e colonne che degradano in progressione. Il senso di straniamento è del tutto fuorviante per chi, procedendo lungo il percorso, dovrà constatarne l’inganno percettivo malgrado l’esibita apparenza prospettica. Vedi il Teatro Olimpico di Vicenza (1580) di Andrea Palladio e Vincenzo Scamozzi, dal cui proscenio si intercettano le fughe prospettiche lignee, delle sette vie di Tebe, mirabile effetto scenografico costruito su altrettanti scorci anamorfici. Vedi la finta abside (compressa in soli 97 centimetri di convergenza ottica) realizzata da Donato Bramante nella chiesa di santa Maria presso san Satiro a Milano, il cui illusionismo prospettico dissimula una profondità dieci volte maggiore. A sant’ Ignazio da Loyola in Campo Marzio, Roma (1685) Andrea del Pozzo, con uno stupefacente stratagemma pittorico tridimensionale, smaterializza la superfice piana del soffitto della chiesa con uno “sfondamento” che sembra proseguire oltre il peristilio di colonnati e trabeazioni, che si dispongono come su due ordini sovrapposti, alla cui sommità si stemperano velature atmosferiche, nel tripudio delle scene allegoriche della gloria del santo. Per ultimo non potrà sfuggire l’accorgimento trompe l’oeil della grande cupola “dipinta” sul soffitto contiguo alla navata come traccia di quella, prevista in muratura, mai realizzata. In tempi recenti, la psicologia e la neurofisiologia, attraverso approfondimenti di metodiche strumentali di Brain Imaging cerebrali hanno consentito di esaminare quei meccanismi neurali che possono essere processati, da quelle regioni corticali che convertono le percezioni visuali in entrata, in un linguaggio di forme d’onda. Il passaggio dalla visione artificiale alla percezione multisensoriale ha posto in essere aspetti di problem solving percettivo che sono oggetto di ricerca delle teorie neuroestetiche.