Autore: Massimo Locci
pubblicato il 2 Novembre 2020
nella categoria Contro-Architettura di Massimo Locci
La mostra di Elisa Montessori alla Fondazione Giuliani di Roma, curata da Adrienne Drake, è interessante per una pluralità di ragioni: per la dimensione sperimentale di un’artista quasi novantenne (è nata a Genova nel 1931), per una lucida riflessione sulla dimensione spazio-temporale, per la capacità di farci riflettere sui valori essenziali del rapporto uomo- natura, per l’essenziale ed efficace allestimento. Partiamo da quest’ultimo. Nella sequenza dei vani tutti rigorosamente bianchi della Fondazione, in un bell’edificio di Quadrio Pirani a Testaccio, l’artista inserisce le sue opere in modo disteso e perfettamente connaturato con il luogo: lavorando sulla contrapposizione non conflittuale tra lunghissime opere orizzontali, che definiscono un sistema paesaggistico, e opere disposte in verticale dal soffitto a pavimento (che si prolungano sul piano di calpestio), legando cielo e terra; introducendo anche una scala urbana, monumentale, che deborda dalla dimensione del vano. Le opere disposte in orizzontale descrivono orizzonti in sequenza, che alludono a luoghi e contesti reali; altre volte sono del tutto immaginari e derivano da una sintesi di mappe astratte, costruite dall’artista fondendo panorami e vicende sulla base della memoria (la mostra si apre con un’importante opera del 1981 riferita ai paesaggi della Manciuria). Tutti sono risemantizzati con filtri interpretativi che riducono la descrizione del reale a ciò che è essenziale. Quelle in verticale sono polarità che attraggono, come un reperto archeologico decontestualizzato, un partito architettonico o, all’opposto, come squarci nelle murature portanti che mostrano cosa c’è oltre, nello spazio urbano. Avvicinandosi all’opera la disposizione angolare, tra parete e pavimento, diventa misura dello spazio e ci riconduce al reale, al suo effettivo valore espressivo. In altri vani Elisa Montessori sospende al soffitto una serie di disegni su foil trasparenti (fittamente disegnati e poi accartocciati) o su carta leggerissima (disposizione che ricorda i tatzebao cinesi), che si configurano come spazi attraversabili e che i giochi di luce rendono diafani, fluttuanti e a-gravitazinali. Il percorso esperienziale è volutamente dis-orientante e finalizzato a eliminare certezze. Anche i suoi lavori, tra astrazione e figurazione, si potrebbero definire un’interrogazione sul segno, talvolta labile, talvolta forte e deciso. Elisa Montessori procede disegnando attraverso cancellazioni parziali e riscritture, dove il vuoto è più rilevante della presenza. Una ricerca che è vicina a quella di Paul Klee, che restituiva all’invisibile la condizione reale. Con una trama di tratti fitti in carboncino, simile all’ideografia cinese, rappresenta i contesti ma elimina gli elementi topici e descrittivi del luogo; semmai introduce nel disegno principale lacerti a collage, realizzati con altre tecniche espressive, che rappresentano un attraversamento occasionale nella narrazione principale; per certi versi i vissuti, le esperienze degli uomini in quell’ambito geografico. Paesaggi, quindi, che ammettono la vicinanza, anche incongrua, di pezzi diversi, di altre strutture. Le immagini, moltiplicate, definiscono una serie di rimandi da sé all’opera, dall’arte al ciclo della vita. Un bel video, in mostra, descrive il suo modo di intendere l’arte e il significato che lega il segno alla gestualità del corpo. Nella sua lunga attività Elisa Montessori ha utilizzato anche altre tecniche espressive e materiali diversi: dall’incisione alla ceramica. In queste installazioni utilizza sia disegni realizzati su carta da schizzo gialla o da spolvero, sia su carta Craft catramata o acetati; materiali ben noti agli architetti operanti prima del digitale. In particolare il lavoro sullo spazio e sul paesaggio non è secondario, considerando la sua lunga frequentazione con il mondo dell’architettura, per esperienze di vita ma, ancor più, per parallelismi di ricerca. Così come non è casuale la vicinanza con la cultura e la sensibilità espressiva cinese. Infine sembra rilevante che Elisa abbia intitolato la mostra ‘La Camera Bianca’. Più che al Withe Cube, cioè allo spazio espositivo ideologico teorizzato come ideale nei primi decenni del secolo scorso (già contestato da Marcel Duchamp), mi sembra faccia riferimento a ‘La chambre claire, l'ultimo e penetrante saggio di Roland Barthes sulla fotografia. La sua riflessione, riferendosi a un apparecchio che permetteva di disegnare per mezzo di un prisma, dimostra, come lui stesso afferma, che “la fotografia manifesta tutta la sua esteriorità, ma anche la sua interiorità misteriosa, impenetrabile, non rivelata”. Approccio che è caratteristico proprio del lavoro di Elisa Montessori. In copertina: Montessori_cover_"La camera bianca", https://www.fondazionegiuliani.org/category/mostre/la-camera-bianca/