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Città possibili: comunità, autonomia e identità. La determinazione di Francesca Ameglio a cura di Federica Caponera

Città possibili: comunità, autonomia e identità. La determinazione di Francesca Ameglio a cura di Federica Caponera

Autore: Federica Caponera
pubblicato il 21/10/2020
nella categoria Parole

"Per costruire comunità resilienti, eque e vitali è prerogativa essenziale aumentare la consapevolezza intorno alla qualità del vivere comune e ai requisiti essenziali, necessari per soddisfare le esigenze di tutti, senza mai lasciare nessuno indietro. È importante dotare la comunità della capacità di dare senso e significato allo spazio urbano che vive attraverso una emancipazione culturale e una maggiore consapevolezza e responsabilità da parte di tutti i cittadini che possono essere l’epicentro di una nuova catena di valore." Tempo di bilanci per 2050 Archifest, progetto culturale del Comune di Colle di Val d’Elsa, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo. Un nutrito programma di seminari, incontri, laboratori, performance ed eventi che per 11 giorni hanno messo il borgo senese al centro del dibattito sul futuro della città e del territorio. Ne parliamo con l’Arch. Francesca Ameglio, direttrice artistica e coordinatrice generale della prima edizione del Festival dell'Architettura, che ci offre una visione di futuro ottimistica e consapevole, volta alla costruzione di un nuovo modello di socialità e dialogo. Cosa ti ha spinto ad intraprendere l’esperienza di dirigere e coordinare un Festival dell’Architettura? La forza dirompente delle cose desiderate, l’intuito e il coraggio. Tutto nasce da un percorso di emancipazione personale che si è alimentato con la potente energia dei luoghi e delle comunità che ho incontrato nel mio viaggio verso sud. Una direzione ostinata e contraria, una migrazione esistenziale che mi riporta indietro alle origini ma che al tempo stesso mi spinge in avanti nella costruzione di futuro. Mi sono lasciata andare, affidandomi all’intuito, a quella strana capacità di percepire e interpretare i segni deboli. Quell’intuizione emotiva, tutt’altro che oggettiva, e che è forse la caratteristica spiccatamente femminile, di abbandonarsi a ciò che non si capisce ma che si intuisce. Segni grandi e piccoli che ho raccolto man mano che apparivano, a volte come lampi, ma che imprimevano una immagine latente che si faceva sempre più chiara e nitida. E poi il coraggio. Questa crisi ci mette di fronte alla difficile scelta di rimanere al riparo nella nostra comfort zone illudendoci che tutto torni come prima, oppure di cambiare rotta e operare una rivoluzione culturale di coscienza e di conoscenza. C’è bisogno di guardare in modo completamente nuovo al futuro e di farlo con coraggio. Quel coraggio dell’avventura, capace di aprire la porta e entrare in altre storie, storie di complessità e di incertezza, di scarsità e di indeterminazione. Storie non necessariamente brutte, come ci raccontava Enzo Tiezzi che ho avuto il grande onore di conoscere. Colle di Val d’Elsa, centro urbano minore con un ruolo strategico. Quanto l’emergenza sanitaria ne ha influenzato gli scenari futuri? Se prima della pandemia già ci domandavamo se esiste una dimensione urbana del possibile, la crisi ci ha fatto porre la stessa domanda con più enfasi ed urgenza. Con questo Festival non volevamo affermare con presunzione che sì, è meglio vivere nei piccoli centri piuttosto che in una grande città, alimentando la sterile dicotomia, ma interrogarci su quali siano le città possibili e porre l’attenzione su quella parte, grande, del nostro territorio che si struttura su un sistema urbano policentrico che come un grande disegno integrato e stratificato caratterizza la nostra penisola. L’Italia è fatta di piccole città che non sono solo testimonianza storica da preservare, ma sono un segno architettonico persistente che perdura nel tempo grazie alla sua forza generatrice tutta da riscoprire e da reinterpretare per affrontare le sfide di un futuro sempre più incerto. Non possiamo permetterci di sprecare questo patrimonio consolidato e il potenziale di sviluppo e benessere ad esso associato. Le città possibili sono città che modulano i propri spazi, fisici e materiali sui bisogni e sui sogni degli individui e della comunità che le vivono. E Colle di Val d’Elsa può esserlo a pieno titolo. È un luogo identitario che respira di storia, ma non per questo schiacciata sotto il suo peso. Ha sempre avuto la forza e il desiderio di rinnovarsi con modelli urbani innovativi e ha sempre creduto nel valore culturale dell’architettura. Una propensione che fa parte del dna di questa città che si è sempre messa in gioco rischiando e perdendo alcune sfide anche importanti. Riconoscere, partecipare, attivare. È accaduto proprio questo? Penso proprio di sì. Il Festival dell’Architettura è stato un primo momento di riflessione sul ruolo della città e per rilanciarla come esempio virtuoso di città sempre più inclusiva, sicura, duratura e sostenibile. Per costruire comunità resilienti, eque e vitali è prerogativa essenziale aumentare la consapevolezza intorno alla qualità del vivere comune e ai requisiti essenziali, necessari per soddisfare le esigenze di tutti, senza mai lasciare nessuno indietro. È importante dotare la comunità della capacità di dare senso e significato allo spazio urbano che vive attraverso una emancipazione culturale e una maggiore consapevolezza e responsabilità da parte di tutti i cittadini che possono essere l’epicentro di una nuova catena di valore. È questo quello che il Festival ha voluto fare. E lo ha fatto sviluppando il concetto di città bella e di qualità operando una vera e propria ricostruzione mentale urbana ed educazione sentimentale all’architettura per far riscoprire ai cittadini come questa, in modo rivoluzionario e profondamente etico, può dare forma al sentire collettivo ed essere espressione della comunità, di un popolo, di una città, di un paesaggio, di una storia. Come ci ha detto Maurizio Carta che è stato ospite del Festival dobbiamo “nutrire l’intellettuale collettivo per coltivare un diverso presente” perché la costruzione del futuro è l’esito di azioni collettive capaci di modificare il presente. La comunità si è lasciata coinvolgere? C’era molta curiosità intorno al Festival e anche un po’ di scetticismo. Qualche polemica e qualche ironico sberleffo, specie sui social. Ma siamo in Toscana e per di più in una città dove un po’, nel bene e nel male, ci si conosce tutti. Arrivare dall’anonimato metropolitano non è stato facile. Così ho imparato a smussare un po’ i miei angoli e ad arginare quell’istinto genovese che ho di impermalosirmi e prendere tutto il meglio del vivere in una comunità che è anche fatta di relazioni a volte difficili e non lineari. Il timore di molti era di ospitare in città un evento riservato a pochi “eletti”, specialistico e di settore. Nei primi giorni le persone facevano capolino in fondo alla piazza coperta, in piedi, sbirciavano e se ne andavano. Ma nei giorni successivi si fermava un po’ di più e poi si sedeva ad ascoltare. La diffidenza iniziale ha lasciato spazio a un intermezzo silenzioso, scarno di commenti, per poi lasciarsi ad apprezzamenti mai vistosi, ma sinceri. E’ necessario perciò… Tornare a parlare di città e di architettura tra la gente e farlo anche nel bar di piazza. I giovani hanno capito subito. E hanno risposto con l’energia e l’entusiasmo che li contraddistingue. Si sono dati subito da fare e sono stati il vero motore dell’attivazione d’interesse. I tanti eventi off che sono nati intorno al festival e che hanno contaminato spazi della città hanno avuto una risonanza e una partecipazione grandissima. Se al Festival si parlava di rigenerazione urbana, fuori già si faceva anche se solo con interventi temporanei ma efficaci nel mettere in luce il potenziale dei luoghi che toccava. E i cittadini di domani, i bambini, cosa hanno immaginato? Incredibile l’emozione e la bellezza nel vedere la piazza che Giovanni Michelucci ha regalato alla città, piena di persone tra i tavoli, con i computer, fogli e pennarelli colorati che disegnavano, progettavano. Da una parte gli studenti delle Università di Siena e Firenze che elaboravano una visione della città al 2050 e dall’altra i bambini che, anche loro come i grandi, immaginavano la città del futuro, che non è quella avveniristica, ma semplicemente quella dei desideri. E vi assicuro che di macchine ce n’erano ben poche, ma tante tante case con le facciate che i bambini disegnavano e sembravano i volti delle persone che le abitano. La città diventava sotto i loro pennarelli un enorme playground dove muoversi liberamente e le strade erano solo traiettorie libere. L’edificio si fa città. Uno spazio che accoglie. Il sogno di Michelucci. Un insegnamento sempre attuale? Perenne, perché tutta l’architettura di Giovanni Michelucci si fonda su principi e valori universali non negoziabili con altri. Il Festival ha voluto rendere omaggio al suo pensiero con una giornata dedicata dove molti architetti e critici, hanno saputo raccontare il maestro, che meglio di altri, ha dato forma alla connessione tra individuo e collettività e quindi essere espressione della collettività. Ma soprattutto ha reso omaggio a Michelucci, con la presenza viva degli uomini nello spazio che lui ha pensato per città progettando una banca che però è una piazza. La cosa più bella è stato realizzare il suo sogno di “veder mutato, cambiato, trasfigurato dalla vita quel che ho costruito. E quel che ho studiato come banca o come chiesa, ritrovarlo mercato o biblioteca o centro sociale, o quel che il tempo avesse deliberato.” Per me Giovanni Michelucci è un angelo. Una presenza percepibile nello spazio che abbiamo vissuto per dieci giorni. Ci ha guidato e ci guida in questo processo rigenerativo di cui il Festival è solo un primo momento. Architettrici: il debutto. Obiettivi futuri? Al festival abbiamo parlato di donne con le donne ed il risultato è stata una presa di coscienza collettiva che è stata a tratti anche più dirompente di una seduta di psicoanalisi. C’è una complessità esistenziale che si scontra inevitabilmente con la linearità di un percorso di emancipazione che non è per tutte uguale. Gli ostacoli sono spesso di più quelli interiori che quelli frapposti dall’antagonismo bellicoso uomo-donna. Credo che per raggiungere la vera parità di genere sia necessario lavorare prima di tutto sull’autostima e sull’empowerment di ognuna di noi. Per noi è stato importante sentire le voci, anche rotte dall’emozione, e abbiamo avuto la sensazione che quello che stavamo facendo era importante. Dopo il Festival non abbiamo ancora avuto modo di vederci per parlare insieme di futuro. C’è un’eredità da svelare, quello sì. Ed è quello che ci spinge a raccontare la storia delle Architettrici che, nonostante tutto, ce l’hanno fatta. Essere donna in architettura, secondo te, è un valore aggiunto in termini di creatività e visione? Proprio durante la giornata del Festival mi domandavo come sarebbero le architettrici di oggi, o semplicemente le donne che hanno studiato architettura se nei libri fosse stato dato più spazio all’architettura al femminile. Forse saremmo diverse? Fatto sta che siamo cresciute guardando ai padri dell’architettura e rarissimamente alle madri. Credo che, soprattutto in questa fase storica, l’interesse per il pensiero femminile a vari livelli e nei diversi campi sociali e culturali nasca prima di tutto dalla necessità di dare espressione alla complessità della personalità umana. Attraverso il femminile è possibile trovare nuove parole e inventare nuovi metodi. Conservando l’antico legame con il tutto indeterminato, la donna e il pensiero femminile ci offrono una nuova chiave di lettura del mondo. Non a caso, in questa profonda crisi che è prima di tutto esistenziale, il pensiero femminile emerge con tutta la sua forza salvifica. L’emarginazione della donna, come quella della natura, può essere molto pericolosa. “2050 Archifest” sarà un esperimento di trasformazione urbana esportabile e replicabile? Non lo so, è ancora molto presto per dirlo. Soprattutto per quanto riguarda gli aspetti rigenerativi dello spazio urbano. Sarebbe interessante però capire una cosa: se, nel sempre più ampio e variegato patrimonio immobiliare in dismissione non più profittevole, edifici moderni come questo di Michelucci, un’opera architettonica riconosciuta ma assopita nell’uso e dalle esigenze diverse, possa trasformarsi in qualcos’altro e possa diventare catalizzatore urbano da cui ripartire, più di altri. Inoltre il format dei Festival dell’Architettura promossi dalla Direzione della Creatività Urbana del MiBACT sono uno straordinario e potente strumento per parlare di architettura e di città non solo tra architetti ma coinvolgendo un po’ tutti gli attori della rigenerazione urbana perché sappiamo che oggi senza comunità non si può avviare quella catena di valore che permette la trasformazione dei luoghi. Alla luce e a conclusione del lavoro da te condotto, puoi esplicitare il ruolo ed il contributo che oggi l’architettura può e deve dare alla società contemporanea? Non credo di avere l’autorevolezza per rispondere in modo esaustivo. La sensazione è che l’architettura contemporanea sembra lasciare poco spazio alla ricerca di linguaggi condivisi con la comunità. Il rischio è di essere in antitesi con lo spirito del tempo che ci chiede invece di porci sempre di più in ascolto e al servizio delle comunità, di porci più domande che ostentare certezze. Dare forma agli spazi deve diventare un atto rivoluzionario e profondamente etico.   Crediti foto: Ambra Lorenzetti Francesca Ameglio è genovese ma vive a Colle di Val d’Elsa dal 2008. Come chi va per mare lascia il porto sicuro e diventa navigante di terra. Si trasferisce con Gabriele nella piccola città del cristallo, a metà strada, e condivide uno studio dove si può giocare coi bambini e una casa dove si può lavorare mentre prepari cena. Sconfina sempre oltre gli stretti ambiti della disciplina e delle competenze specifiche, per allargare lo sguardo e navigare nella complessità. Tra i progetti si possono trovare architetture e costruzioni di carta, coordinati grafici e case sentimentali, dati scientifici e pitture ad olio, passi letterari e favole per bambini, e ancora, rock progressive e musica ammutolita, città invisibili e piane ipermercate. Nel cuore il grande mare.