Autore: Daniel Screpanti
pubblicato il 29 Settembre 2020
nella categoria Luoghi comuni di Daniel Screpanti
Saremo comunità resiliente: se penso a un collega che una volta scrisse sui social “odio i collettivi”, ammetto che mi viene un po’ da ridere.
Senza ironia, a me stanno molto a cuore la sostenibilità di pensieri/azioni e il futuro migliore del pianeta (anche perché ancora non ho né progettato né costruito né scritto né detto né insegnato né recitato qualcosa di veramente significativo, e comunque ci terrei a fare qualcosa di buono prima che torni il T-rex e che ruggisca tra i rifiuti che raccolgo sui marciapiedi, pur non avendoli prodotti io).
Credo tuttavia che noi viviamo ancora una fase in cui il tema enunciato in premessa costituisca solo una tana, un rifugio comodo in cui non farci beccare troppo colpevoli e pure impreparati.
Se non sbaglio, qualche tempo fa Cino Zucchi ha scritto a riguardo che “è terribile pensare che nel nome sacrosanto dell’ambiente vengano prodotte ogni giorno architetture mediocri, senza alcuna qualità se non un certificato LEED o CasaClima”. Vicino a questa citazione che ho prontamente riportato nel quaderno dei miei appunti, ho scritto d’istinto qualcosa del genere: il discorso architettonico sulla sostenibilità è piatto (o appiattito).
Probabilmente il suo storytelling è ancora bidimensionale perché stiamo creando dei brand (anche scientifici e non solo commerciali) piuttosto che degli spin off: ambiente, cambiamento climatico, resilienza, sviluppo sostenibile non hanno ancora il copyright, ma manca davvero poco al franchising.
La differenza di approccio che proporrei, a firma congiunta con il T-rex, quale potrebbe essere? Smetterla con il catechismo sulle vicende dell’iposostenibilità e le relative penitenze (3 pannelli solari in più e a letto senza cena) e avviare una stagione progettuale nuova tutta incentrata sull’espansione geometrica e geografica dei discorsi e delle proposte sulla sostenibilità (non sui cappotti termici) nei contesti (ricchi e poverissimi) della globalizzazione (la geografia è da sempre la rappresentazione di un campo di esperienza che ha a che fare con l’architettura sia come ambito insediativo in senso stretto, sia come ambito a geometria variabile in cui presumiamo agiscano i contenuti e le qualità architettonici).
L’ipersostenibilità dell’architettura che propugno sarebbe nei diversi luoghi del mondo l’esplosione delle diversità di approccio al tema dell’inquinamento e della violenza insensata degli uomini sugli ecosistemi non artificiali (e diciamo le cose come stanno).
Sarebbe un fuggire per sempre dalla noia terrificante in cui siamo piombati dopo essere scesi dalle montagne russe dell’high tech e del decostruttivismo, per ricentrare tutto e tutti (solo se muniti di apposito ticket) sulla catarsi ecosostenibile ed ecumenica dei superbonus governativi (Dio li benedica) e dei discorsi sulla resilienza dei centri commerciali in terra cruda.
È vero, lo confesso. Non ho problemi solo con la resilienza due volte al giorno dopo i pasti; ho sempre avuto un rapporto complicato anche con le comunità. Già dalle scuole medie, manifestavo insofferenza quando il preside parlava di sorti magnifiche e progressive della comunità scolastica: nel pulmino alcuni membri della SCS (Santa Comunità Scolastica) mi prendevano la cartella di tecnologia incasinando le tavole precisine e pulitissime che facevo con la proiezione ortogonale dell’esagono. Nessuno degli altri membri della SCS muoveva un dito o un labbro per difendermi. Essendo indubbiamente traumatizzato, ho reazioni molto tiepide quando mi parlano di Comunità perché mi rendo conto di quanto siano piene di pregi ma anche di difetti le comunità. Quelle resilienti poi mi spaventano per la velleità di volersi dotare di un aggettivo in modo stabile.
In definitiva: personalmente, e chiedo scusa soprattutto ai colleghi dell’iposostenibilità che a volte maltratto, non vivo i termini con la tranquillità che alcuni hanno quando usano le parole (soprattutto quelle con la ci maiuscola...che ti viene voglia di dire “salute!”).
Per me alcune parole dovrebbero schiudere orizzonti di senso e di problemi di senso, piuttosto che convogliare tutti i possibili brodi semantici in imbuti di certezze retoriche.
Daniel Screpanti In copertina: Foto dell’autore di una scena dello spettacolo itinerante “La favola di Orfeo e Euridice”, scritto e diretto da Gabriele Claretti, avvenuto nel territorio di Monsampietro Morico, in Provincia di Fermo, l’8 e il 9 agosto 2020.