Autore: Diego Barbarelli
pubblicato il 17 Maggio 2020
nella categoria Concorso Giovani Critici 2020
Testo inedito
L’atmosfera che si crea intorno a qualunque reperto archeologico, anche urbano, è indescrivibile; l’azione di esplorare un luogo che in passato era vissuto da altri esseri umani crea una sorta di collegamento con le moltitudini di passati che lì si sono succeduti. D’altra parte, trovarsi all’interno di un edificio che porta addosso i duri segni del tempo rende consapevoli di questo flusso che tutto pervade e tutto avvolge.
Marc Augè nel suo “Rovine e macerie” tenta di spiegare come la contemplazione delle rovine permette la percezione del tempo puro, inteso come tempo al di là della storia; e auspica per le rovine un ruolo pedagogico le quali ci spingono a “ritrovare il tempo per credere alla storia”. Questo meccanismo, secondo Augè, è iniziabile solo in presenza della commistione tra natura selvaggia e rudere, poiché insieme offrono una percezione delle diverse profondità del tempo: quello geologico e quello umano; “questo armonioso disordine, colto dallo sguardo in un solo istante, ha qualcosa dell’arbitrio che caratterizza il ricordo”. E questa funzione di chiave che libera i ricordi, creando un flusso di immagini in movimento, non può essere scaturita da tutte le rovine verso tutti i tipi di spettatori.
Nel momento in cui si prende in considerazione il ruolo dei reperti archeologici nella sfera sociale in cui si vive il cerchio si restringe; essi, al pari del dialetto, o degli usi e costumi, hanno un ruolo cruciale nella crescita, e un posto cruciale all’interno dei ricordi e permettono un collegamento più diretto e più forte verso la storia. Crescere all’ombra di un reperto archeologico sviluppa un rapporto simbiotico con essa; non è più un’opera d’arte ma diventa quasi un familiare, un parente, uno zio che racconta storie interessanti. Storie che inevitabilmente ti accompagnano per tutta la vita. Perciò, molto più di altre rovine, esse sono un nostro retaggio, poiché in esse risiede il collegamento diretto che ci riunisce alla storia.
In una società che punta all’eterno presente, alla distruzione della storia, le rovine hanno proprio l’abilità di mantenere il contatto tra uomo e tempo. Le strade, i palazzi, i porticati dove i nostri avi sono passati non ci mettono in contatto solo con il flusso del tempo ma anche con noi stessi; se noi siamo consci dello scorrere del tempo siamo consci anche della nostra permanenza nel tempo e di noi stessi come elementi temporali. “la temporizzazione dell’uomo, quale si attua attraverso la mediazione di una società, è uguale a un’umanizzazione del tempo. Il movimento incosciente del tempo si manifesta e diventa vero nella coscienza storica”.
“Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini” così Guy Debord descrive la società dello spettacolo; egli teorizza un cambiamento di fondo nella complessità delle interazioni umane le quali adesso sono costruite e mediate dalle immagini, lo spettacolo va a colpire l’aggregazione tra persone, ma in un modo inaspettato.” La fase presente dell’occupazione dell’economia conduce uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire […] nello stesso tempo, ogni realtà individuale è diventata sociale, direttamente dipendente dalla potenza sociale, modellata da questa.” Secondo Debord nella società dello spettacolo ci ricrea un’unione sociale separata in quanto la comunicazione è unilaterale; le immagini che vengono proiettate che danno l’illusione di un falso senso di aggregazione sociale ma in realtà, abolendo il dialogo, ci rende individui isolati in una folla; ed è a questo che questo tipo di società punta, alla distruzione di un’autocoscienza.
I mass-media sono solo la struttura visibile, il mezzo con cui la società dello spettacolo si mostra al grande pubblico. La merce prodotta dalla società dello spettacolo diviene sempre meno tangibile in modo che possa occupare realmente ogni aspetto della vita sociale, e proprio perché la merce concreta è sempre più rara si sviluppa il domino reale della merce apparente. Ma la società dello spettacolo va oltre, essa trasforma il tempo in merce vendibile per soddisfare uno pseudo-bisogno; questo tipo di tempo è definibile consumabile nel senso stretto della parola; sia come merce consumabile a pagamento, sia come “tempo del consumo di immagini”.
Proprio come la merce che, svuotata del suo valor d’uso, viene acquistata per la sua carica simbolica così anche la cultura viene declassata a merce consumabile. La società dello spettacolo ha visto in essa in grande potenziale propagandistico ed ha deciso bene di utilizzarlo a proprio favore. I meccanismi della società spettacolare hanno fatto in modo di svuotarla della propria aura, cioè della sua unicità. Così, le grandi eredità artistiche vengono trasformate per divenire veicoli di propaganda dello spettacolo, per non dire veri e propri prodotti pubblicitari. Nasce così un atteggiamento di sfruttamento spettacolare dell’opera d’arte per indurre le masse al consumo, non di essa in prima persona bensì di prodotti ad essa collegati, quali gadget, servizi, elementi collezionabili o riproduzioni di ogni genere. Tutti gli esempi di arte utilizzata nelle pubblicità portano ad una conclusione, che la cultura è diventata una sorta di insegna luminosa al neon, una derivazione perfettamente aderente in un’epoca dove realtà e finzione, copia e originale si amalgamano.
Le rovine sono diventate gli attori inconsapevoli di un grande sistema che ruota intorno a immagini e merci; esse vengono comprate o scambiate come delle vere e proprie carte collezionabili; alcune più importanti di altre. Secondo il meccanismo spettacolare non tutta l’arte è degna di essere vista o visitata, una certa parte viene valorizzata, l’altra nascosta o buttata secondo quello che in quel momento è più vicino ai gusti del consumatore, proprio come succede ai programmi televisivi. L’opera d’arte, nel XXI secolo, è allo stesso tempo veicolo e merce della società dello spettacolo.
L’architettura, tra le discipline artistiche, è quella che possiede un carattere di utilità. Infatti, essa oltre a esprimere una certa corrente estetica, soddisfa, per sua natura, alcuni fabbisogni essenziali dell’essere umano per il più lungo periodo possibile. Dunque, i due caratteri dell’architettura; quello di utilità e quello di durabilità, sono messi a dura prova dal cambio radicale della società in società dello spettacolo.
La durabilità di un edificio è di per sé un’utopia in una società che punta ad una intercambiabilità continua. “Oggi il business non è costruire, ma distruggere. La più grande impresa nel campo edilizio è quella della famiglia Loizeaux, ovvero la controlled demilitions incorporated”. Con questo La Cecla vuole esprimere un concetto molto semplice ma con mille implicazioni per la città come la conosciamo, gli edifici hanno una durata di vita così breve e vengono sostituiti così velocemente che la città fatta di superfetazioni e sovrapposizioni che noi conosciamo è destinata a scomparire. I lotti, delimitati da viali alberati non sono altro che palcoscenici occupati temporaneamente da edifici. Nuovi edifici vengono innalzati come monumenti al progresso con la costante voglia di stupire e di sviluppare la tecnica; monumenti che con la stessa velocità con cui sono stati costruiti inevitabilmente diventano obsoleti. Perciò necessitiamo di un modo per sostituire le architetture con tempi ridottissimi e a costi bassi. Una modalità di creazione a cui non interessi l’utilità o la durabilità, un metodo che permettesse di plasmare una forma grazie a uno strumento facilmente reperibile, come un PC, elettricità e la luce. Non deve essere propriamente materiale ma solo darne l’impressione, ingannando la percezione; deve essere innovativo, grandioso e luminoso, in modo da attirarci come zanzare verso le lampade.
Qui entra in gioco l’ologramma; la cinematografia fantascientifica non si è allontanata tanto dalla realtà della creazione di un ologramma, infatti la proiezione di luce nello spazio essenzialmente vuoto crea una figura in tre dimensioni priva di materialità ma assolutamente visibile ad occhio nudo. L’ologramma permetterebbe di cambiare la forma di un edificio con tempi brevissimi, il tempo che basta per fare un 3d esaustivo, e a costi bassissimi, non nulli ma nulla in confronto a costruire un edificio materico. Andrebbe incontro magnificamente a ciò che la società chiede di più da un edificio pubblico, la spettacolarità e la continua trasformazione.
L’ologramma architettonico calato all’interno di un tessuto più o meno completo è allo stesso tempo insegna che edificio. In quanto edificio è autocelebrativo, ha una certa estetica, una certa composizione ed è considerabile un’opera d’arte che si deve contemplare. In quanto insegna ha lo scopo di vendere un prodotto, o meglio, ha lo scopo di attirare le persone verso un determinato punto. Perciò proiettato a fianco di un rudere, nella sua accezione di insegna, tende ad attirare consumatori; a questo punto essa diventa una merce turistica.
Architetture e progetti che hanno perso il loro valore simbolico subiscono la stessa sorte della merce, diventando sempre più un’astrazione del reale, e i ruderi che gli sono affiancati, per osmosi della radianza dell’ologramma, subisco una sorte forse peggiore; in quanto retaggio di una cultura e di una società la propria astrazione li svuota del proprio significato; dunque tutta l’emozione che potenzialmente potevano trasmettere in quanto reminiscenza dello scorrere del tempo è andato ad affievolirsi. Lo svuotamento del significato è quel tipo di atteggiamento verso qualsiasi oggetto che tende alla mercificazione; sono atteggiamenti che vanno dalla critica alla pubblicità i quali sminuiscono certi aspetti al fine di vendere il bene al più grande bacino possibile.
DATI PERSONALI:
Nome: Federico
Cognome: Corallini
Data di nascita: 09/09/92
Professione: disoccupato