Autore: Eduardo Alamaro
pubblicato il 2 Febbraio 2020
nella categoria Crick di Eduardo Alamaro
Buon anno, buon 20-20, e buona pesca nei mari dell’artigianato di “tradizione “rinnovata”. Con i minori e le arti minori non accompagnate, da tutelare. All’uopo ho pescato in rete una bella foto di Ugo La Pietra architetto, che fa proprio al caso nostro. Anzi al caso che il La Pietra stesso ha reso pubblico in un recente librettino del quale mi ha fatto omaggio per Natale. E di ciò lo ringrazio con affetto, mi ha allietato le sempre noiose vacanze. Mi sono molto di-vagato nel leggere le avventure del La Pietra (talvolta d’inciampo), artista-architetto con interessi artigiani che ama raccontare e raccontarsi. E ciò ci ac-comuna nella Comuna (e comunella) della fabula d’Italia. Da rinnovare, oggi e sempre. Nei 14 capitoletti che compongono il non certo ozioso suo libretto dal titolo: “Ugo La Pietra, storie di cose, luoghi e persone” (Manfredi edizioni, Imola, 90 pp. b/n), il Nostro amico milanese (di origine ciociara non rinnegata), ben cucina alcuni epi/sodi (ancora sodi e non scaduti) del suo ultra cinquantennale percorso progettuale, dal 1961 al 2017. Cioè, dall’iniziale “Antibrutalismo” del 1961 al Politecnico di Milano, dove tra l’altro La Pietra ebbe come docente il non dimenticato maestro napoletano Carlo Cocchia (pp. 9 – 13), fino alla recente (2017) “Beffa” della “povera Lupa capitolina”, (pp.81 - 85). Passando e trapassando poi, in ordine di apparizione, ne “La mostra degli orrori”, prima storica occupazione del Politecnico, Milano ’63 (pp. 19 - 23); indi nel “Progettare IN PIU’, inizio e fine di una rivista” del 1973-75, (pp. 25 - 31); segue il “Neoeclettismo degli anni ’80” ad Abitare il Tempo di Verona, (pp. 43 - 47). Ed ancora: “l’Arte che si innamora dell’industria”, 1988, e fu così La Pietra scrisse “Il primo libro su Gio Ponti”, edito ai tempi della Milano da bere del “Centro Internazionale di Brera”, (pp. 49 - 53); fino … … fino, (saltando molti capitoletti del libretto con figure di Ugo), alla “Tradizione rinnovata”, 1999. Cioè al campo specifico dell’oggetto artigiano italiano resistente e residente, territorio tra arte e design molto amato e arato da La Pietra. In particolare quello delle ceramiche, con le sue città dalla collaudata tradizione secolare tutelata, da aggiornare. E forse, si disse sfottendo, da “lapietrizzare”, anche via fax, coi suoi magistrali disegnini per gli artigiani d’Italia. E’ il La Pietra filosofale, progettuale a distanza, “facilitatore” e felicitatore d’arte & di design. Il sottotitolo del molto pepato capitoletto sulla “Tradizione rinnovata” (da La Pietra, pp. 67 - 71), segnala un problema di non facile soluzione, divisivo tra progettista ed esecutore-interprete, tra artigiano e artista. Anche per interessi concreti e monetari d’autori posti su fronti contrapposti. Titola infatti: “L’artigiano che si crede artista”. E chi è oggi l’artigiano a-tipico, cioè che va fuori dal seminato a lui assegnato dall’arte, dalla Storia, dalla ideologia? Chi è oggi l’artigiano “che si crede artista”? (ed evidentemente non lo è per La Pietra, anche se i nostri sono tempi molto liberisti e “possibilisti”, essendo saltati tutti i canoni e i cani a guardia delle antiche regole). Uno di questi maestri artigiani “dell’arte non autorizzata” è quello di cui scrive La Pietra e che sta raffigurato qui sotto, in questa esemplare foto “pescata” in rete: Giacomo Alessi di Caltagirone, “art/iere” (e artioggi) che conosco perché, anni or sono, almeno un decennio, mi invitò nella sua officina ceramica (ma io colpevolmente non andai, non ricordò più il perché, forse per pigrizia) e … … e poi mi inviò nel 2009 un bel libro della milanese “Silvana editoriale”, monografico sulle sue ceramiche. Il sottotitolo di quel libro era (ed è) ambizioso: “… una lunga tradizione per il futuro”. Infatti Giacomo Alessi è annoverato tra i “tesori umani viventi” dalla regione Sicilia. E è anche Cavaliere della Repubblica italiana (dell’arte). Dopo tanti anni ho ripreso “il tesoro” cartaceo di Alessi dalla libreria. L’ho riaperto, l’ho risfogliato. Vi ho trovato dentro anche un bigliettino di accompagnamento. Con invidiabile bella calligrafia l’autore scriveva: “Spero che ti possa divertire, Giacomo”. Mai due foto a confronto, due ritratti, indicano due dimensioni, due stati d’animo, due approcci all’oggetto: tanto è elegante e (volutamente) tutto-mentale La Pietra architetto milanese, artista di progetto d’arte comportamentale, tanto appare (ed è) “concreto” & fattuale, Giacomo Alessi, art-artigiano di Caltagirone. Sta questi fotografato nella sua officina. Con le mani sporche, concentrate sul “fatto”, cioè sul piatto del tornio (forse metafora del piatto quotidiano da portare a tavola). Gli occhi suoi mi paiono pieni di fuoco dell’Etna; la camicia è come nelle fiabe, a quadroni alla Mastro Geppetto che fu; il mantesino è d’obbligo e utile in questi casi artigiani ceramici (“culi incretatì”, chiamavano i ceramisti a Castelli d’Abruzzo). Infine, Il baffo di Alessi è d’antico modello siculo; la sua chioma è nera e selvaggia. Da leone di Caltagirone. Perfetto. Come possono trovarsi e operare bene insieme due tipi umani italici che si rappresentano così diversamente? Il problema si pone, s’è posto con supposte d’autore, perché i due hanno lavorato (bene) insieme per qualche tempo, attorno al 1999. Hanno infatti elaborato, all’inizio del loro rapporto, sei cachepot; sei (dico 6) vasi antropomorfi pre-levati dalla tradizione ceramica di Caltagirone, ma rinnovati et penetrati poi dal gusto odierno di La Pietra ed eseguiti ad arte perfettissima da Giacomo Alessi. I vasi ebbero successo in una mostra a Milano, tanto che la gallerista, scrive La Pietra, “ne acquistò una serie intera”. Complimenti! Monetizzando: un vaso di normale produzione artigiana di tradizione Cantagirone-Alessi costa in catalogo 200 euro circa; un cachepot Alessi di tradizione Calt e cult rinnovata, firmato con e da La Pietra, spostato nel circuito della galleria d’arte a Milano, costa … un’altra cifra, molto più elevata. Plusvalore dell’arte. Da qui onori e Oneri, autori e diritti d’autore. Qui il problema, qui le prime crepe ceramiche. Qui l’inizio della fine del sogno condiviso della “tradizione rinnovata”. Qui la dura realtà delle merci. La Pietra, all’uopo e all’uovo, scrive nel libretto (p. 70) che: “le vendite prevedevano che la cifra incassata fosse divisa a metà …”. E così è stato fino a quando, annota sempre La Pietra (nera in questo caso), “alcuni amici mi fecero notare che …” bla, bla, bla, … (Segue sor-presa nei fondelli …, sussurri e grida di dolore, che ovviamente qui tralasciamo, rimandiamo il volenteroso lettore alla fonte …). Insomma, avete capito, eroici lettori mei: come si dice a Napoli quando si rompe un rapporto, tra i due “si ruppero le giarretelle”, tanto per rimanere in campo ceramico di tradizione. Siamo fatti così, se vi pare, italiani! Alzando il tiro da questa specifica vicenda, in una nota al suo testo, La Pietra (di paragone) riflette sul rapporto-scontro artista-artiere: e scrive a p. 71: “E’ sempre difficile per l’artigiano che realizza l’opera su progetto di altri autori riuscire a superare l’idea che questa opera non sia sua, ma che è “anche” opera sua”. E’ appunto un’opera condivisa, potenziata, “a doppia firma”, come sostengo da almeno un ventennio inutilmente, molto prima di La Pietra. E ciò, del resto, perché ho studiato la secolare storia specifica artigiana. Cioè “la tradizione” viva e le sue consuetudini, fin dai tempi di Filippo Palizzi pittore, direttore artistico delle Scuole-Officine del Museo Artistico Industriale di Napoli, da rinnovare nell’insegnamento. Si faceva così, ovviamente, pacificamente, pari e patta, anche – ad esempio - per le litografie dell’800 (Tizio inventò, Caio incise, sta scritto sempre in calce); o, in altri settori, specialmente plastici: Tizio modellò, Caio eseguì, ecc. …. Quindi, in questo caso: La Pietra progettò, Alessi realizzò. L’artiere, qui meglio “il grande artiere” Alessi, seguì ed e-seguì il progetto La Pietra, ma (forse, suppongo) con qualche riserva mentale. Anzi, con una riservata fattuale, perché “l’esecuzione è un’arte”. Arte assoluta in sé e per sé, pensa l’artiere. E non è tanto lontano dal Vero. Fatto il disegno e -magari- anche un primo modellino, il progettista artigiano “di tradizione” (e non solo lui) sta “in mano” all’esecutore (o rifinitore) dell’opera. Sta in mano all’artigiano e alla sua bravura, che vale tutta l’opera. Vita o morte del progetto. E di ciò Alessi è certo consapevole. “Vuoi fare l’arte? Chiama l’artigiano!” è un mio collaudato slogan sfottente. Per fino (e per segno) il grande Gemito, per fare un esempio, “stava in mano” al suo cesellatore che si chiamava, ironia dei cognomi, Pavone, piccolo e con le mani d’oro. E Gemito tanto gemitò con le autorità militari fino a quando lo fece ritornare a Napoli dal fronte bellico, nella prima guerra mondiale. Era essenziale, indispensabile, alla bellezza della Patria dell’Arte! Così si disse e così il Pavone di Gemito fu sottratto al massacro sul Carso. Potenza artigiana, attento Ugo! ‘A guerra è guerra, disse la vecchia allo sbarco di Anzio, lo sai! L’ opera “eseguita ad arte” è però, qui il vulnus, talvolta tanto amata da chi la fa (su progetto altrui) che l’artiere finisce per viverla come “fatto suo”, fatto suo esclusivo. Dimentica così la condivisione, il seme progettuale iniziale, necessario all’opera stessa. Chi qui scrive l’ha notato tante volte, a sue spese. Forse (ma so di mettermi nei guai), in questa dinamica esclusiva, l’artiere è simile a una donna che sgrava. Che “fa” e che vive il figlio appena partorito come “fatto suo”. Suo parto esclusivo. Del resto è lei che l’ha fatto, (e nel travaglio l’altro non c’è, anche se presente democraticamente). Rischia solo Lei, col suo corpo. E’ sangue e vita sua, e son dolori suoi. ‘E figli so’ piezz‘ ‘e core artigianali! E’ allora meglio, è più saggio, che il progettista-architetto (anche di edifici) si rassegni a questo dato artigiano “naturale” e che trovi altri percorsi e strategie partecipative più sofisticate. Trovi altri Intrecci, altre condivisioni, altre distanze di salvaguardia del suo lavoro, ab initio. Specie quando incontra un forte artigiano consapevole di sé e del suo valore, come Alessi di Caltagirone. Del resto anche il pensiero progettuale è materia grigia, come l’argilla. E poi il narcisismo degli artigiani non è inferiore a quello degli artisti. La Pietra non è un ingenuo, ha i calli in quel posto giusto e ben lo sa. E’ molto navigato e non è certo uno stinco di santo, come tutti noi. Siamo peccatori in questa valle di lacrime artigiane (almeno fino a quando la robotica e le nuove tecnologie computerizzate cambieranno le regole di un gioco millenario). Che Dio ci perdoni, se può. Anni fa il Nostro mi disse simpaticamente, (allora mi invitava in molte scorribande nel “sociale artigiano” da rinnovare), che andare per questi territori è sempre pericoloso. E’ come per i missionari andare a convertire e/o rinnovare tradizioni consolidate e altre, in qualche modo “selvagge”. Sicché prima o poi il volenteroso missionario finisce cotto nel pentolone. Bunga, bunga, bono omo bianco, bono il milanese, gram, gram … , concluse sogghignando. Non lo stetti a sentire e feci male: finii cotto a puntino nel pentolone di Vietri sul Mare delle ceramiche da rinnovare, ne so qualcosa. Qualcosa di sempre frustante e perdente per me progettista e ideatore “romantico” solidale. Il pentolone bolle sempre in questi luoghi della tradizione artigiana. La caldera è sempre pronta per il visionario di turno da cuocere e mangiare. Una prece su tutto ciò, ma … … ma, a favore del locus “di tradizione”, bisogna dire che l’esecuzione in realtà & verità è sempre una “interpretazione” del progetto del “fuori luogo”, del missionario passante. L’accoppiamento senza accoppamento è necessario (ma non contro natura, prego). In qualche modo tutto ciò mi pare simile al pianista che interpreta la pagina musicale scritta dall’autore. E spesso i grandi autori sono stati anche grandi pianisti. De-cessi e cessati per fine vita gli autori, il testo musicale va letto e rivissuto necessariamente da altri. L’esecutore entra così, deve entrare necessariamente, nell’autore estinto. Meglio quindi che il progettista si estingua subito da sé. Anzitempo. Che doni al luogo, che passi “la mano” all’esecutore ab initio. Pena il fallimento dell’opera. Pena la mancata socializzazione “del pezzo” creato. Il mondo artigiano “di tradizione” ha sempre vissuto sulla imitazione, sulla copia; spesso sul falso e sulla contaminazione di generi e de-generi, fino alle ruberie salutari. L’artigiano non conosce diritti d’autore, anche nelle aule di giustizia lo sanno. Sempre assolto. L’autore è qui sempre collettivo, è il luogo stesso fattivo. Lì sta la sua bellezza, la sua inafferrabilità. Del resto, “il pericolo è il nostro mestiere” di progettisti contemporanei. All'artigiano non si doveva far sapere quant'è buona l'Arte con le pere d'autore, come da proverbio. Ma ora è tardi, lo sa … Che fare?, allora, per evitare problemi e conflitti? Fin quando ho praticato queste visioNArieté artigiane (da tempo ho abbandonato il campo), ho dato sempre più gradi di libertà all’artiere. Libertà di interpretazione e “tradimento” del mio stesso disegno di progetto. E. da parte mia. convinta accettazione della sua “interpretazione”. Fino a eliminare (io) quasi del tutto il disegno, (che peraltro spesso l’artiere non è in grado di leggere correttamente), e … e perciò tendevo a giocare sulla suggestione della mia parola, sul “progetto orale”. Del resto ciò è nella tradizione artigiana d’alto bordo: i figurini disegnati che appaiono nelle riviste patinate alla moda, i grandi sarti li fanno (o li fanno fare) a cose fatte; li disegnano dopo l’esecuzione. Non è necessario partire per forza dal disegno, anzi. Il modello vincente che hanno in testa, i grandi sarti lo costruiscono sul corpo vivo della modella/o. Corpo artigiano dal vivo. Pensiero e azione, in scala 1/1. Stop, mi sono allargato e allungato troppo, ma il tema m‘ha preso ‘e PresS/T. Saluti artigiani, buon anno.