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E quello che, forse, non sarebbe male ascoltare:

E quello che, forse, non sarebbe male ascoltare:

Autore: Diego Terna
pubblicato il 3 Febbraio 2012
nella categoria Architetture immaginarie di Diego Terna

di Diego Terna



che, forse, pensavamo fosse scomparsa la leggenda metropolitana che lo studio di grido non insegni nulla, sfrutti le persone e non costruisca, mentre quello normale costruisca tantissimo e sia un'oasi di pace lavorativa ben pagata. Pur senza aver fatto un sondaggio serio, ma in base a quanto conosco,  in tutti gli studi immaginabili (grande – piccolo – italiano – straniero – archistar – non-archistar - …) la condizione lavorativa è sempre la stessa: non pagati, inizialmente, brevissimo contratto a progetto, successiva partita iva. Solo gli studi più “locali” osano proporre pagamenti in nero (spero, ormai, non più);


che, forse, la vera differenza sta tra paesi dell'Europa Latina (Italia, Spagna, in parte Francia, per esempio) che sfruttano l'escamotage della partita iva e paesi dell'Europa del Nord, dove si fanno normali contratti di lavoro da dipendenti, magari rinnovati di sei mesi in sei mesi (ma che spesso si trasformano in contratti a tempo indeterminato);

che, forse, l'Italia e il mondo sono pieni di opere edili e che poche di queste raggiungono il grado di architettura e ancora meno quello di capolavori. Non è che costruire molto sia sinonimo di qualità;

che, forse, questi studi normali potrebbero anche smetterla di infestare le città con opere di dubbia qualità;

che, forse, è assolutamente vero che l'architettura sia spazio costruito, ma che allora il giovane non vada a lavorare in un normale studio italiano, ma vada da qualcuno di bravo, famoso o meno, all'estero, dove, se non altro, il numero di possibilità di vedere costruite opere di buona architettura è molto più alto che in Italia;

che, forse, ciò che manca all'architettura sia la società che la circonda, la quale dovrebbe essere preparata culturalmente a capire (come avviene in molte nazioni europee ed extraeuropee) che l'architettura è una sfida possibile alla vita e non il colore pastello da applicare alla stanza da letto. E che, quindi, un architetto non dovrebbe domandarsi se vivrebbe in una casa da lui progettata (la risposta, a meno di non essere dei cinici disinteressati allo spazio, è sempre: certo!), ma dovrebbe riuscire a raccontare, e a farsi raccontare dal committente, come ci si immagina si sviluppino le vicende della vita legate a quella casa, dando loro una consistenza spaziale;

che, forse, dovrebbe semplicemente provocare molte traspirazioni per raggiungere le aspirazioni, senza necessariamente ricercare il mito del genio silenzioso (d'altronde, solo Zumthor può vivere tra neve e vacche e continuare a produrre capolavori. E non è neppure molto silenzioso);

che, forse, se esiste qualcuno più bravo di noi, l'intento sia di superarlo in bravura, non di rallentare dietro una corsa che riteniamo irraggiungibile;

che, forse, sarebbe divertente vedere un professore universitario che riesca ad organizzare un corso senza la marea di assistenti, impreparati e non pagati, che preparano il corso e cercano di dare qualche indicazione agli studenti in mancanza del professore stesso;

che, forse, c'è gente (come Francesca Woodman) che è morta suicida a 22 anni - lasciandoci ancora oggi il sapore di opere artistiche eccezionali - senza pensare che sia vera l'equazione vecchiaia = esperienza = bravura.


l'architettura immaginata

diego_terna@hotmail.com